Versus vs versus

Wednesday, July 26, 2006

Gli embrioni Findus

Che margine interpretativo lasciano le soluzioni espresse dal Consiglio Europeo all’interno del VII programma quadro 2007-2013 quanto a possibilità di ricerca su staminali embrionali?
Nonostante il fermo no alla distruzione di embrioni a fini di ricerca, rimane più di una ragionevole perplessità in tal senso, se il Ministro italiano della Ricerca Fabio Mussi ha deciso di far suo il cosiddetto emendamento Niebler, con il quale si apre alla possibilità di una cut-off date per gli embrioni.
Che significa?
Significa fissare, a rigor di scienza, un termine ultimo oltre il quale non conviene più procedere all’impianto in utero degli embrioni crioconservati (dopo un certo periodo di crioconservazione -non ancora stabilito dagli scienziati secondo il disco orario, come vorrebbe il nostro ministro- le speranze di attecchimento in utero dell’embrione congelato sono pressoché nulle), e quindi rendere quest’ultimi disponibili alla ricerca scientifica: distruggerli per ricavarne cellule staminali sulle quali sperimentare, in sostanza.
Pago della sua idea il ministro Mussi commenta: “si tratta di campi in cui non può esistere un punto di vista assoluto ma occorre trovare un compromesso”. È vero. Ma ci sono casi in cui i principi non si possono piegare a nient’altro poiché nessuna altra ragione vi è di maggiore.

E questo è uno di quei casi.
Si può dibattere e raggiungere compromessi su quello che è il risvolto politico della questione, trovando punti di sintesi, ma non si può prescindere dal dilemma etico e dai due corni della questione: l’embrione umano o è persona umana o non lo è, tertium non datur, onde per cui non è accettabile alcuna sintesi fra un corno e l’altro del dilemma.

La questione non passa per i tavoli della politica, ma attraverso una corretta visione antropologica e la coerenza delle proprie argomentazioni.

E qui ci spieghiamo.

Se l’embrione umano non è persona umana, non c’è alcuna necessità di una cut-off date: si può legittimamente procedere alla ricerca scientifica su di un soggetto che non ha fra i suoi diritti la tutela all’esistenza e alla sua dignità.

Se l’embrione umano è persona umana, altrettanto superflua risulterà la cut-off date poiché nessuno di noi (persone umane) si sognerebbe di francobollarsi una data di scadenza sulla chiappa come fosse un surgelato qualunque: si ha una sola scadenza naturale nella vita ed è la morte, termine dell’esistenza meritevole della stessa dignità e dello stesso rispetto del suo decorso.

Se prima lo pseudo-concetto soprannumerario pretendeva una propria valenza ontologica, oggi si vuole far credere che la questione etica circa gli embrioni crioconservati abbia una scadenza, come si trattasse di un bastoncino di pesce andato a male.
Una visione a dir poco raggelante.


Citazione in corsivo tratta da: Ansa.it

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Monday, July 24, 2006

Da una parte o dall'altra

Sebbene sia auspicabile, non è possibile analizzare l’attuale frangente della crisi mediorientale a partire da attente premesse storiche. La storia israelo-palestinese è troppo lontana perché le cronache vengano in aiuto alla maggior parte di noi, e al contempo, troppo vicina affinché se ne possa dare un’interpretazione sintetica e condivisa.
Si rende perciò obbligatorio analizzare il presente, e rilevare come non siamo più di fronte ad un conflitto che contrappone unicamente israeliani e terroristi palestinesi; sono altri i protagonisti della scena, come da più analisti messo in evidenza: Siria, ma ancor più Iran muovono le pedine di Hamas ed Hezbollah nella volontà di tracciare un nuovo assetto geo-politico dell’area mediorientale.
Un’efficace sintesi della situazione odierna è rintracciabile nelle parole di Benedetto XVI: “I libanesi hanno diritto di vedere rispettata l'integrità' e la sovranità del loro paese, gli israeliani hanno diritto a vivere in pace nel loro stato e i palestinesi hanno diritto ad avere una loro patria libera e sovrana”.
Le parole del Papa sottolineano come ciò che si rende più urgente è la ripresa del cammino di pace fra israeliani e palestinesi che si è bruscamente interrotto coll’uscita di Sharon e l’entrata (democratica) di Hamas; il partito palestinese è stato in questi mesi prepotentemente strumentalizzato dal presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejād, che, facendo leva sull’antisemitismo che serpeggia nelle classi arabe emarginate, ha di fatto impedito ad Hamas la possibilità di assumere una qual si voglia forma democratica che avrebbe prediletto la via diplomatica a quella violenta.
Forti di questa situazione politica inconsueta, e fomentati dalla Siria con ogni probabilità, anche gli Hezbollah hanno ripreso i loro attacchi ai territori israeliani.

La reazione di Israele, visti i fatti e le minacce, verbali e non, è stata inevitabile (dal punto di vista della ragion di Stato); doverosa per uno Stato che vede minacciata la propria sovranità, inviolabilità e sicurezza.

Tuttavia, non si può nascondere, dietro la giustificazione del diritto ad esistere, la violazione da parte israeliana della sovranità dello Stato libanese. Che Israele se ne assuma la responsabilità di fronte alla comunità internazionale, consapevole di aver dovuto fare una scelta che ha implicato delle conseguenze. Il diritto a difendersi non implica de iure alcun diritto a muovere guerra contro una popolazione civile inerme e soprattutto estranea ai fatti.

Ma ciò non significa per noi occidentali farci scudo dei concetti di equidistanza, o equivicinanza, che dir si voglia, per sottrarci a delle responsabilità che hanno da essere ben chiare e definite: io italiano, io europeo, io che ho conosciuto la Shoah, non posso permettere né accettare che alcun Paese minacci Israele di annientamento e non diritto ad esistere sulla base dell’antisemitismo discriminatorio e aberrante tanto nelle sue conclusioni quanto nelle su premesse.
Senza contare che un attacco di tale portata e pur sempre anche un attacco al modello societario e politico di Israele che è quanto di più vicino a me possa esserci in Medioriente.
Rispetto ogni forma di aggregazione civile mediorientale e non, ma non posso tollerare l’intolleranza nei confronti dei miei valori, né un attacco allo stato di Israele sulla sconcertante base di una fantomatica razza ebraica da perseguitare e annientare.
Non posso e non devo accettare tutto ciò.

Per non dimenticare.

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Saturday, July 22, 2006

Avvertenza ai commentatori

Per prevenire l'attività di spam d'ora in avanti sarà necessario sottoporre i commenti alla "verifica parole".

Mi spiace doverVi propinare questo insulso test, ma è una pratica a carico Vostro che necessita di pochissimi secondi e mi permette di avere la casella mail libera da centinaia di messaggi spam pressocchè giornalieri.

Scusandomi per il disagio arrecato Vi saluto e Vi ringrazio per la benevolenza accordata a questo blog.

Vi ricordo che il prossimo post sarà on line lunedì 24 luglio p.v.

Saturday, July 15, 2006

L'interposizione di pace

Preoccupatissimo per la situazione in Medioriente, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto “vedrebbe con favore l'invio di nostri soldati in Libano solo se si trattasse di truppe di interposizione di pace.”
Nel lancio di agenzia AdnKronos del 13 luglio scorso, truppe di interposizione di pace è una definizione virgolettata, indi attribuita a Diliberto.
Nel concreto, cosa sarebbe un’interposizione di pace? Forse che è un’indicazione geo-ideologica? Dovremmo mandare un nostro contingente militare in Medioriente e disporlo a Gaza tra soldati israeliani e terroristi palestinesi, oppure a sud del Libano, sempre tra militari israeliani ed hezbollah?
Un po’ come si faceva a scuola, quando i due bulletti di turno si volevano menare e il buon samaritano era lì, a fare da paciere; e se le prendeva, di solito.
Vi è inoltre l’aggiunta fondamentale: di pace. Quindi, dei nostri militari si metteranno in mezzo al fuoco incrociato nudi, come mamma li ha fatti, armati di una sola bandiera fatta dei colori dell’arcobaleno fino a che non sarà ridotta un colabrodo; poi faranno librare in cielo mille colombe bianche nella speranza che tutto si risolva nel tiro al piccione.
Ma sì, giusto così, la politica premia non la coerenza ma la faziosità, non importa che giusto e verità stiano nel mezzo, si ha da scegliere una fazione o l’altra: nel mezzo ci va la pace, concetto universale ridotto a slogan markettaro.

Tiriamoli fuori i nostri dall’Iraq, lì non servono a nessuno, e soprattutto non servono alla causa di Diliberto.
Tiriamoli fuori dall’Afghanistan, e chi se ne importa che il caos si trasformi in violenza; la pace va dove ne ha bisogno chi ha un comodo scranno a Montecitorio.
Anche il sangue ha un colore, quando serve alla causa; anche la dignità della morte sul campo è diversa nella stessa divisa: a Nassiriya infami 10 100 1000 volte, a sud del Libano martiri della pace.
Ma la pace di chi? E per chi?

Per il lancio di agenzia integrale:
AdnKronos on-line

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Monday, July 10, 2006

La Storia la scrivono i vincitori


Croce e delizia. Nel 1982 quel triplice “Campioni del mondo” inventato magistralmente da Nando Martellini fu la cronaca di una vittoria quasi annunciata; il quadruplo “È finita” di Marco Civoli è stato il grido di una sofferenza sentita nelle carni e portata avanti fino alla fine, fino al colpo Grosso.
Per una volta, il cuore di noi italici mammoni non ci ha tradito in campo, ha vinto quelle stesse emozioni che esso stesso genera. Determinati e – per questo - fortunati.

Fango e sudore. Ed ora che persino il britannico The Guardian ha lodato il nostro gioco, basta coi complessi di inferiorità, con la modaiola esterofilia; basta denigrare il Paese: forse siamo uomini piccoli, e andremo pure avanti a grandi calci nel sedere, e a fatica, e forse non sappiamo guardare al di là del nostro naso, forse non siamo particolarmente ambiziosi, godiamo accontentandoci e ci accontentiamo godendo. Ma siamo capaci di ogni cosa.
Ora lo sanno in Germania, e lo sanno in Francia, ed è inutile infangare il nostro successo: ci saranno anche lacrime e sudore sulla Coppa, ma il trofeo è terso, chiaro, limpido.
Il fango sta ancora sui garretti dei galletti.

L’eterno dualismo. Una nota minore forse, ma va pur segnalato. Non esiste tifoso azzurro che sia disposto a sopportare ancora le ovvietà di Sandrino Mazzola ai microfoni: Gianni Rivera, straccia la tessera del partito e torna a fare il golden boy per mamma RAI!!!

Zizou, une saison en enfer. Zinedine Zidane non è certo nuovo quanto a colpi di testa. Non si può essere campioni se non si è prima uomini. Si può imparare a palleggiare sulla violenza e in barba all’emarginazione, nei ghetti di Marsiglia, ma le regole della strada non ci lasciano mai se non si ha la fibra morale necessaria.
Chiude qui la sua carriera di buon palleggiatore. Bravo.

Lebbrosi. Il presidente della FIFA Joseph Blatter ha disertato la premiazione dei nostri; qualcuno gli dica che anche in Italia abbiamo debellato gran parte delle malattie contagiose letali. Ci rimane ancora la buona educazione e il rispetto: provvederemo per la prossima volta.

Original Soundtrack. In fondo, si tratta solo di qualche istante: al tiro di Grosso la rete si gonfia ed esplode la gioia in un unico grande urlo sconvolto, abbracci così stretti tanto da mozzarti il poco fiato che ti rimane. Poi ti passi le mani in faccia e attonito continui a fissare lo schermo, ti chiedi come è possibile, e come è possibile che il cuore ti batta così forte. Sta tutto in quei 5 minuti di “emozioni fortissimi” per “una squadra fortissimi”.
Il resto è folklore: caroselli, trombette, botti e clacson, e un ritornello dei White Stripes che non scorderai mai più nella vita, un po popo popo po po scemo che però ti segna l’esistenza.
È un rito collettivo, confusionario, caotico, tribale. La piazza è del popolo, senza distinzione si è tutti uguali, in quella luce istintiva dello sguardo, quasi animalesco: uno sguardo fiero da fiera.
Te ne torni a casa con le poche energie rimaste mentre una Bitter Sweet Simphony dei Verve dallo stereo ti fa ancora sognare ad occhi aperti, quando è quasi l’alba e il sogno è già realtà.
Ti metti a letto, e ti accorgi che i tuoi occhi sono un po’ lucidi e senti un groppo in gola, e ti chiedi come diavolo è possibile che una partita di calcio ti cambi la vita.

Però è così.

Friday, July 07, 2006

Giudicare il silenzio

È quantomeno imbarazzante il silenzio che i media internazionali oppongono riguardo la situazione mediorientale che nelle ultime ore si è ulteriormente aggravata con l’avanzata dei tank israeliani nella Striscia di Gaza e l’ordine impartito alla polizia palestinese di sparare ai soldati dell’esercito di Tel Aviv.
I fatti di ieri (nonostante i morti siano stati più di 20 in 24 ore) hanno avuto poco spazio nei nostri notiziari; il TG1 ha relegato la cosa a quello che probabilmente era il sesto o settimo servizio, dietro un brillante reportage sul bagarinaggio ai mondiali; per giunta, il servizio dedicato alla situazione in Medioriente era in realtà una sorta di dichiarazione ufficiale di un esponente (donna) del governo israeliano abilmente mascherata da intervista, il cui succo è stato: “Non sta accadendo nulla di anormale quaggiù, state pure tranquilli”. Perché ci dovremmo fidare della sua parola senza avere una dichiarazione della controparte resta un mistero che pertiene alla coscienza dei giornalisti RAI.

D’accordo il gatekeeping, il newsmaking e l’agenda setting, ma è possibile che quattro gocce in Italia abbiano più rilevanza di una quasi guerra in Medioriente?

I media, il cui compito sarebbe quello di fornirci informazioni e strumenti critici per leggere la realtà, sembrano piuttosto aver perso il senso della realtà, della gravità e della priorità: che idea possiamo farci di quella delicata situazione se resta per noi difficile attingere alle più basilari e semplici informazioni, se persino la cronaca spicciola dei fatti, in questa occasione, latita?
Ovvio che gli interrogativi allora si spostino in un’opinione pubblica attenta e, forse maliziosamente, non interessa più il perché la situazione tra israeliani e palestinesi stia precipitando, ma piuttosto: perché i nostri mezzi di informazione ce ne tengono all’oscuro?

C’è qui in gioco un dovere deontologico che prescinde dal criterio del fare o non fare notizia: faccia o no notizia, dal Medioriente dipendono molti dei futuri assetti geopolitici e delle mosse strategiche che Paesi oggi in rotta di collisione con l’Occidente valutano di opporre a favore dei propri interessi.
Perché l’opinione pubblica dovrebbe essere tenuta lontana dalla possibilità di porre una propria valutazione?

È allora il caso di sollevare più di un dubbio nei confronti di una comunicazione di massa che anziché fornire un servizio, quello di fornire gli strumenti critici di interpretazione della realtà, droga la realtà, oscurandone una parte e spacciandone un’altra come più reale del reale, sulla base di una gerarchia di valori totalmente falsa e sballata o, peggio ancora, utilitaristica e corrotta.
Entriamo in un circolo vizioso quando ci chiediamo il perché di uno status dell’informazione e della comunicazione che avvelenano le capacità interpretative e critiche del destinatario anziché favorirle: è un perché che l’informazione e la comunicazione stesse dovrebbero aiutarci a comprendere.

Wednesday, July 05, 2006

Taxi Driver


È regola oramai assodata che chi sciopera non lo fa nell’interesse della collettività, ma nel proprio; niente di male in tutto ciò, è legittimo difendere i propri interessi, ma, alle volte, questi ultimi, si tramutano in privilegi.
La liberalizzazioni delle licenze taxi (anche se le cose non stanno realmente così: non si apre ad un mercato selvaggio del servizio ma più semplicemente si da via libera in tal senso ai Comuni secondo le esigenze e le opportunità) è sicuramente un passo risoluto e, per certi versi, inaspettato, da parte della nuova maggioranza di governo, verso un’abolizione di quei privilegi che nel tempo si sono sedimentati a favore di tante (troppe) categorie professionali.
Questi privilegi pesano sul cittadino, non solo nel portafoglio: creano un clima di ingiustizia e inevitabile risentimento nei confronti del privilegiato, che ottiene i suoi benefici non si capisce bene per quale particolare merito di sorta (o di sorte).
Viste però le agitazioni già in atto da parte delle associazioni di categoria, ci si chiede perplessi se il Governo avrà il coraggio di continuare su questa strada, per mezzo di una politica economica che, tra l’altro, storicamente non gli appartiene, e che rischia alla lunga di andare ad intaccare interessi più grandi e più forti della forza di coesione in seno alla maggioranza.
Non ci si può arrestare infatti solo ai provvedimenti in fatto di taxi e farmaci, se l’intento è mosso da principi e valori politici, uno su tutti quello dell’equità: sono gli interessi delle grandi lobby del potere economico quelli da colpire, primi fra tutti quelli delle banche.
Domanda fondamentale: perché le banche straniere che aprono filiali in Italia, anziché proporre condizioni vantaggiose e concorrenziali rispetto a quelle di casa nostra, si adeguano?
È il capo del governo l’uomo giusto per porre fine alle vere e proprie speculazioni che banche e assicurazioni su tutti fanno sulla pelle del cittadino qualsiasi, vista la sua storia personale, professionale, i rapporti che ha intrattenuto e intrattiene con alti esponenti di quel tipo di potere?
È doveroso riconoscere al governo l’iniziativa coraggiosa, come altrettanto necessario è mantenersi vigili affinché non sia questa l’ennesima strada percorsa a metà e subito interrotta: l’azione di questo governo risulterebbe in tal caso sterile come i proclami elettorali di quello che l’ha preceduto furono infruttuosi.
Ci rimarrebbe in più solo l’illusione di sentirci a Manhattan, a bordo di un muso giallo guidato da un cinese.

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Monday, July 03, 2006

La nostra pagina di Storia

Non è solo una partita.

Capita dal secolo scorso grossomodo ad ogni generazione di avere la Partita.
É poi coincidenza che negli ultimi 36 anni sia sempre la stessa che ci vede alle prese coi crucchi.
La Partita travalica ogni mero senso sportivo: essa è significante e significato di un’intera compagine giovanile.

L’ebbero i post-sessantottini, in quel Messico ’70, in quel 4-3 che di per sé ingigantì con l’aiuto della Storia la portata di quel match, fino a tramandarci, così come l’utopia sessantottina, la Grande Illusione; Franz Beckenbauer col braccio al collo e le imprecazioni di Albertosi fecero il resto. Quella vittoria strappata con le unghie e coi denti fu fumo inutile; lo spazzò via il Brasile in finale. Quale parabola migliore per l’utopia studentesca di quella generazione?

Spagna ’82 fu la rivincita di una generazione che per troppo tempo si era presa sul serio, fino a darsele di santa ragione, fino a farci scappare troppi morti, fino a versare il sangue di chi, all’inizio di quella finale, chiamava fratello, fratello di una Patria martoriata e divisa in lungo e in largo, accesa dal fuoco di passioni politiche che presto si tramutarono in acceso odio.
Quell’urlo liberatorio di Tardelli svegliò finalmente le coscienze sopite di quei giovani che inconsapevoli perpetrarono la Grande Illusione; quest’ultima finalmente ebbe fine.

E oggi ci siamo noi, i figli degli anni ’80, quelli che aspettano Italia – Germania 2006, quelli che da questa Partita vogliono la sintesi del loro presente e futuro; quelli che di una Grande Illusione, ne avrebbero bisogno, per tirare avanti, per colmare quel senso di vuoto e inutilità della realtà che troppe volte e a troppi di noi, prende.


Vogliamo saperci vincenti o perdenti nella vita, ad ogni modo realizzati nell’uno o nell’altro caso; cerchiamo un’identità e un carattere, una personalità, e vogliamo un fine da raggiungere che ci possa regalare attimi di felicità intensa.

Vogliamo che domani vada in mondovisione la parabola dei nostri anni, vogliamo che il pallone sul campo ci indichi e ci insegni il senso delle nostre azioni, la direzione del nostro agire.

Vogliamo qualcosa di chiaro e deciso che ci schiarisca le idee su noi stessi.

Vogliamo che domani sera una partita realizzi il nostro sogno di sentirci indispensabili artefici di questo mondo, e vorremmo all’indomani scoprirci così responsabili e sicuri di noi da non demandare più queste incombenze ad una semplice partita di pallone.


 
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