Versus vs versus

Friday, December 22, 2006

Buon Natale


A tutti Voi, i miei migliori auguri di Buon Natale.
AV

La foto è di: ortica

Non sanno quello che han fatto

Chi legge potrebbe pensare alla polemica fuori luogo, magari al cattivo gusto di certe affermazioni.
Chi scrive, pensa che ci siano cose che non possono essere lasciate al non detto, condannate al silenzio da un perbenismo di facciata, da una retorica spenta.

Ci si riempie la bocca di rispetto nei confronti di PierGiorgio Welby, e si crede forse che rispetto significhi piegare le proprie idee a quelle della persona da rispettare.
Rispetto significa riconoscimento di quel valore unico che Welby rappresenta e ha rappresentato in sé e per sé, della sua dignità di essere umano unico ed irripetibile; rispetto non è abbassare il capo di fronte a quanto accaduto, ma continuare a difenderle le proprie convinzioni, siano esse di segno uguale o contrario a quelle di Welby. E quanto, per certi versi, è accaduto ieri, non è degno di un uomo che ha voluto affrontare, con coraggio e con orrore, la morte.

Secondo quanto riportato da ultim’ora Mediavideo alle 10.30 circa, un dirigente radicale affermava che Welby era deceduto per cause naturali. Basta poco perché ci si accorga che la dichiarazione non può reggere, e circa un’ora dopo un’agenzia stampa francese riporta la dichiarazione di un medico italiano secondo la quale egli stesso avrebbe staccato la spina a Welby. Attorno alle 12.30 arrivano in diretta le prime notizie dalla conferenza stampa indetta dai radicali. Si parla di sospensione di cure, di spine staccate, di sedazione: nessuno pronuncia la parola eutanasia. È il paradosso. Dopo quasi 90 giorni di lotta a favore dell’eutanasia, ieri, dappertutto, la parola eutanasia è bandita, tabù. Si respira perplessità; c’è il disorientamento di chi mette a fuoco poco a poco, capisce piano piano, lentamente.
Qualche esponente radicale in conferenza stampa parla di disobbedienza civile, ma poi si tiene a precisare che tutti si sentono tranquilli e pensano di aver agito senza aver violato la legge: e dove sta la disobbedienza allora? A chi si è disobbedito se tutto è in regola ai sensi della legge? Che senso avrebbe avuto la battaglia di Welby se la legge permetteva già quanto è stato fatto? Cos’è? Si è fatto uno show non necessario della volontà di morire di un uomo, per ottenere una vittoria politica di Pirro?

Quanta miseria e meschinità in chi non è capace di assumersi le proprie responsabilità quanto ad azioni, pensieri e parole
: ci parlavano di eutanasia, oggi di sospensione delle cure e dell’accanimento terapeutico (nonostante il parere dell’Istituto Superiore di Sanità); ci parlano di disobbedienza civile, e ci dicono che tutto è nella norma giuridica.
Non è stato necessario nessun canto di gallo affinché si tradisse lo spirito e la memoria di un uomo che si è battuto per l’eutanasia: la sua battaglia è stata rinnegata subito dopo l’alba.
Quanta ipocrisia, quanta falsità, quanta viltà.

Chi scrive, continuerà, come altri, a scrivere del suo no all’eutanasia, a favorire la tutela del diritto a vivere dignitosamente e a declinare gentilmente l’invito al culto della morte, senza remora alcuna, senza farsi intimidire da chi parla di pietà e solidarietà umane, riempiendolo del significato che strumentalmente più si confà alle sue tesi. E lo farà sempre nel rispetto di chi pensa diversamente. Un rispetto del quale ieri, uomini piccoli e meschini che avevano condiviso la battaglia di Welby, hanno colpevolmente mancato di fronte a chi, per la sua idea, ha dato la vita.

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Wednesday, December 20, 2006

Outing

«Compagni gay non vi ho tradito»

Piero Fassino, lettera a Il Riformista, 19 Dicembre 2006

Articolo sul Corsera

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Wednesday, December 13, 2006

E se lo dicono loro?

Dopo le critiche piovute sul precedente post, mi son sentito come San Giovanni Battista nel deserto (ci è stato nel deserto sì?!).

Poi oggi, ho letto le lettere al Corriere. Claudio Magris e Sergio Romano:

Il caso Welby e i malati che vogliono vivere

A integrazione di quanto ho cercato di dire nel mio articolo «Un caso estremo e i valori assoluti», apparso sul Corriere della Sera il 10 dicembre, vorrei richiamare l'attenzione su un altro aspetto del problema, della cui rilevanza mi sono reso conto dopo la pubblicazione del mio articolo, attraverso una dichiarazione di Mario Melazzini, primario day-hospital oncologico Irccs S. Maugeri di Pavia, presidente nazionale dell'Aisla (Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica) e a sua volta colpito da tale gravissima malattia neurodegenerativa e costretto sulla sedia a rotelle, capace di muovere solo due dita della mano destra, ma che continua a esercitare il suo lavoro di medico. Il primario Melazzini, dichiarando di avere il massimo rispetto per le considerazioni di Piergiorgio Welby e per le sue sofferenze, si dichiara amareggiato di vedere che si investe moltissimo (in denaro, impegno politico, comunicazione mass-mediatica e così via) per iniziative incentrate soltanto sulla rivendicazione del diritto a morire, mentre non si prendono quasi mai in considerazione le ragioni, le testimonianze, le iniziative di chi, pur in condizioni clinico-fisiche analoghe o anche peggiori di quelle di Welby, si impegna in una direzione contraria ossia per la continuazione della vita, testimoniando la volontà e la possibilità di vivere dignitosamente sino all'ultimo. Il primario Melazzini denuncia ad esempio il fatto che lo scorso 18 settembre, mentre Piergiorgio Welby «riceveva dalla più alta autorità dello Stato pubblica risposta alla sua richiesta di sospensione delle cure, rimaneva invece inevasa la silenziosa protesta di un gruppo di malati di sclerosi laterale amiotrofica provenienti da tutta Italia.Questi malati chiedevano più assistenza, più tutela della dignità dei pazienti, anche più ricerca vera. Tra di loro c'erano molte persone in carrozzina, molte ventilate artificialmente, alcune tracheomizzate; tutte in uno stadio avanzato della malattia ma con la stessa aspirazione: vivere, non morire». A livello politico e mediatico, egli aggiunge, «chi vuole morire fa notizia, mentre non fa notizia chi — magari trovandosi in identiche o anche peggiori condizioni — viene volutamente trascurato». Mi sembra doveroso dare il più ampio risalto possibile a questa denuncia, anche indipendentemente da ciò che si pensa in proposito, e mi interesserebbe naturalmente molto conoscere la sua opinione.
Claudio Magris ,

Caro Magris, temo che il primario Melazzini abbia ragione e che il desiderio di vivere sia effettivamente meno «piccante», per il mondo dell'informazione, del desiderio di morire. Spiace constatarlo, ma siamo tutti guardoni e consumatori di emozioni forti. Sbirciare dal buco della serratura un uomo che invoca la propria morte è più eccitante che assistere al quotidiano impegno di chi cerca di sopravvivere. Eppure vi è tra Welby e i malati di cui parla Melazzini un tratto comune. Tutti credono che ogni persona, venendo al mondo, debba lasciare al mondo qualcosa. Un grande filosofo spagnolo, José Ortega y Gasset, scrisse in un suo saggio che la parola «autore» deriva dal verbo latino augere, che significa aggiungere, aumentare. Se dimentichiamo per un istante il significato prevalentemente artistico che la parola ha assunto, siamo tutti «autori» perché tutti egualmente desiderosi di realizzare qualcosa, di lasciare una traccia della nostra presenza: un libro, un'opera di beneficenza, un'azienda, un patrimonio, un'invenzione, una raccolta, il ricordo di un lavoro ben fatto e della nostra abilità in un particolare settore delle attività umane. Non c'è persona, per quanto pigra e indolente, che non desideri di essere ricordata per essersi distinta in qualcosa. Il caso di Welby, a questo proposito, è esemplare. Welby non vuole scomparire nel nulla. Si serve dell'ultima parte della sua vita perché il suo caso susciti un dibattito nazionale, modifichi la legislazione italiana, crei il diritto alla morte. Nel post scriptum della lettera che ha inviato ai direttori dei giornali, chiede ai suoi compagni e sostenitori di sospendere lo sciopero della fame e li ringrazia per una «forma di lotta che ha contribuito in modo determinante al radicamento di un nuovo grande momento di dialogo e di conoscenza a tutto il Paese». Chi difende energicamente il diritto di Welby dovrebbe chiedersi contemporaneamente se il successo della sua campagna non rischi di creare in una parte della società la pericolosa convinzione che l'Italia abbia trovato finalmente la soluzione del drammatico problema delle malattie terminali. Non si deve difendere il diritto alla morte senza fare altrettanto, con eguale energia, per il diritto alla vita. (Sergio Romano)
Estratto da Corriere della Sera, 13 Dicembre 2006.

Ho capito di essere il pirla di sempre. Ma perlomeno, sono in buonissima compagnia.

AV

P.S. Questo post è massimamente autocelebrativo. Chiunque voglia commentare per rinfacciarmi il mio egotismo, sappia che ne sono già consapevole.

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Thursday, December 07, 2006

Aiutare a vivere

La vicenda umana di Piergiorgio Welby ha assunto una straordinaria rilevanza mediatica, tanta quasi da essere decontestualizzata dalla situazione di dolore e sofferenza reali dell’individuo, per essere piuttosto strumentalizzata ai fini di una battaglia politica e civile(?!) ad opera dei radicali.
I radicali sono abili comunicatori e maestri di vittimismo: a parer loro conducono sempre battaglie civili e laicamente sacrosante, e sempre sono ostacolati da una società civile medievale e feudalistica, da una Chiesa Cattolica intollerante e talebana, da un sistema mediatico reazionario, fazioso e imbavagliante. Ma il caso Welby rileva l’esatto contrario, ovvero la grande forza comunicativa del movimento radicale che riesce (con la complicità dei media) a spacciare per maggioranza dell’opinione pubblica quella favorevole all’eutanasia, quando la realtà dei fatti è ben altra, e se non altro è quella di un’opinione pubblica che il problema non se lo era mai posto e si ritrova ora a fare i conti con un’informazione assai manipolata e orientata che non consente di fare una scelta di coscienza piena e consapevole.
E cioè.
I media compiono un’operazione scorretta quando giocano con l’emotività e i sentimenti dell’opinione pubblica: le immagini di sofferenza e dolore di Piergiorgio Welby che, afflitto da distrofia muscolare, attaccato ad un respiratore, immobile a letto, chiede di essere ucciso, inevitabilmente toccano le corde emotive dello spettatore, stringono il cuore che con un singulto fa sì che si dica: “uccidetelo, perché tanto quella non è vita”. Ma in questioni etiche così delicate, giocare sull’emotività è quanto di più scorretto e aberrante si possa fare, oltre che offendere pesantemente l’intelligenza dell’opinione pubblica. La visibilità mediatica data al caso Welby getta poi ombra su altri aspetti di medesime realtà che vengono tralasciati, se non appositamente occultati, perché ciò che ci si dovrebbe chiedere, una volta accertato che non è moralmente, né eticamente, né giuridicamente possibile aiutare qualcuno a morire, è questo: c’è qualcuno e chi è questo qualcuno e quanti sono eventualmente questi qualcuno che nelle medesime condizioni psico-fisiche ed esistenziali di Welby, anziché chiedermi di morire, chiede a me, società civile, Stato, istituzioni e quant’altro, di aiutarlo a vivere? A fronte di chi chiede di aiutarlo a morire, c’è chi chiede di aiutarlo a vivere? È una domanda scomoda da porsi, e forse è scomodo chiedere ai radicali (ma a qualsiasi altra formazione politica italiana): perché questa battaglia non ha uguale merito e dignità di essere condotta tanto quanto quella per l’eutanasia? Forse chi vuole vivere è meno degno di chi vuole morire? Per quale motivo? Forse perché aiutare a morire è di gran lunga più semplice ed economico che aiutare a vivere? Perché laddove si vuole teorizzare il diritto alla morte poco ci s’interessa di quello alla vita? Forse che chi accetta la propria vita segnata dal dolore e dalla sofferenza è meno coraggioso o degno di chi vuole darsi la morte? È una questione di coraggio, di stima, di soldi, di che?
Sono migliaia in Italia le persone affette da gravi malattie degenerative e le patologie senza cure che possano perseguire la guarigione, malattie che non coinvolgono solo il paziente, ma tutto il mondo che gravita attorno al paziente, in primo luogo la sua famiglia. E spesso, troppo spesso, queste persone e le loro famiglie vengono lasciate sole, nell’indifferenza generale, benché il loro desiderio non sia altro che quello di vivere dignitosamente quanto loro resta da vivere, in qualsiasi condizione si trovino, godere dell’affetto di chi li circonda. Ed è l’indifferenza che spesso li uccide, più del dolore, della sofferenza e della malattia stessa, perché l’indifferenza li uccide dentro e diventano quell’amico fragile del quale ci si occupa un’ora al mese e nulla più. Ecco che le immagini di dolore e sofferenza legate ad una richiesta di morire ci fanno dire sì alla morte, ma le stesse immagini, fossero legate ad una richiesta di aiuto a vivere, non ci farebbero dire forse sì alla vita, nonostante tutto?


Il paradosso del caso Welby: la richiesta incessante di procurargli la morte è diventata per Welby battaglia ostinata, credo personale, motivo per svegliarsi al mattino e affrontare ciò che lui considera l’avversario, lottare assieme ai suoi amici radicali e della Fondazione Luca Coscioni per qualcosa per cui pensa ne valga la pena. La richiesta di morte è diventata ragione di vita, senso di un senso di libertà umana che si annulla solo con la morte, ma che a volte, proprio nelle circostanze più coatte e disagiate, si acuisce nel suo esercizio mentale e nello spirito. Ed è già un buon motivo per tenere duro e continuare a vivere.


La foto è opera di: confusedvision

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Monday, December 04, 2006

Divorzio all'italiana

Che i toni di Silvio Berlusconi lo scorso sabato a Roma avessero qualche cosa di evangelico era palese, ma l’attenzione data a seguito della manifestazione capitolina nei confronti del PierFerdi ha scomodato perfino figliol prodighi e vitelli grassi. La folla oceanica radunata a San Giovanni per ascoltare il discorso della montagna, attendeva solo il miracolo, predetto dal profeta mistico Gianfranco col suo: “…il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi…”; in quel di Palermo, un’esigua quantità di uomini UDC trepidava per la moltiplicazione dei pani e dei pesci e tollerava misericordiosamente le piaghe di Cuffaro.

Ma ndo’ va Casini? È facile che in queste ore, pure a Forza Italia se lo stiano chiedendo: viste le ultime dichiarazioni (leggi Corsera), il divorzio pare consumato. Delle risposte ci sono, ma sono scontate, e proprio per la loro banalità intrinseca sono le soluzioni più papabili: esclusa l’ipotesi di Grande Coalizione, qui qualcuno prepara il ritorno della Balena Bianca; i tempi sono favorevoli, il mare grosso si è quietato da un po’, e di capitani Achab in giro se ne vedono pochini, e quei pochi sono senz’altro più storpi e debolucci del personaggio di Melville. E non suona per nulla strano che quella sirena obesa del Ministro CLEMENZA Mastella mandi a Casini messaggini sotto il banco per dirgli: “Conviviamo dai! Proviamoci!”. Alla faccia del Pacs! Qui è la Pax tra ex DC quella che si prepara. E CLEMENZA, il suo richiamo della foresta, già lo ha lanciato.
Se questi sono i piani, tanto valeva per PierFurbi seguire subito l’amico Marco “Harry Potter” Follini, che con un colpo di bacchetta ha spazzato via ogni suo legame col Berlusca e si è andato a piazzare in quell’Italia di Mezzo che fino a pochi giorni fa era fantasilandia da Tolkien, mentre oggi assomiglia sempre più al vero. Ma questo confermerebbe le doti del PierFurbi, che avrebbe così mandato l’amico Harry in avanscoperta per bruciargli la copertura.
Certo, se questi non fossero i piani, si può sempre pensare ad una UDC che pretende maggior peso in una coalizione che però gli stessi ex DC hanno definito alla frutta e senza senso: non possono ambire ad una posizione egemone, né dettare la linea politica, quindi cosa potrebbero concretamente pretendere dall’alleato Berlusconi? Forse una diretta successione delle redini di Forza Italia quando il suo capo carismatico abdicherà; si farebbe largo l’ipotesi dunque che si voglia far fuori il Vate in Laterano, Gianfranco Fini, che passerebbe così alla storia come il più grande perdente di successo che la politica italiana abbia mai visto. Della Lega sembra sempre non preoccuparsi nessuno, ma quel Maroni lì ultimamente comunica bene tanto quanto un più che consumato attore del palcoscenico politico romano: populista e preparato, senza fesserie padane di corredo, finalmente.
Insomma, non una spy story forse, ma le dinamiche all’interno del centrodestra non hanno nulla da invidiare ad intricati gialli che oggi sui quotidiani vanno per la maggiore. Certo è che non si profila unità di intenti all’orizzonte: nessun partito unico, nessuna federazione di partiti al momento, perché finché il centrosinistra non si muove (e non ha nessuna motivata intenzione di farlo, al di là delle dichiarazioni di facciata), neppure il centrodestra ha il bisogno di farlo. E qui sta il succo: è concepibile in Italia un vero sistema bipolare? Cui prodest? Forse, solo al cittadino, purtroppo.

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