Versus vs versus

Monday, October 30, 2006

Figli di Troia

La ripresa delle violenze nelle banlieue francesi a circa un anno dai primi disordini ci costringe a riproporre una riflessione che già allora si era fatta, seppur marginalmente, preferendo concentrarsi sugli aspetti più sensazionalistici, emotivi e, per così dire, spettacolari, della vicenda.
Nonostante lo spauracchio dell’integralismo islamico (mai correttamente affrontato) che impera in lungo e in largo per l’Europa, il problema sociale francese è di tutt’altra natura, e per certi aspetti, paradossale rispetto ad altri fenomeni sparsi qua e là per l’Europa.
Chi incendia autobus e sfoga nella violenza la propria frustrazione e la propria impotenza non sono fanatici d’importazione, ma figli della Francia che la Francia non ha riconosciuto e non riconosce, lasciandoli vivere da reietti, ghettizzati ai margini della Ville Lumiere, in zone residenziali che di residenziale non hanno nulla: non luoghi di ritrovo, né di culto, né illuminazione, né servizi degni di un vivere civile nel senso pieno che oggi gli attribuiamo. Viste le condizioni di emarginazione sociale che quotidianamente vivono questi immigrati di seconda e terza e magari quarta generazione, la protesta, anche violenta, non suona come uno scandalo per chi, come loro, si sente (ed è) a tutti gli effetti, francese. Tutto ciò è il risultato di una politica francese più che decennale che è sì sempre stata improntata al multiculturalismo e alla multirazzialità, ma che, evidentemente, ha sbagliato nei suoi effetti pratici. La famosa, tanto contestata, cosiddetta legge sul velo di qualche anno fa, è il sintomo che ha rivelato il fallimento di una politica imposta da una maggioranza culturale che, non accorta, non si è accorta che nel frattempo le minoranze non erano più tali, e reclamavano (e reclamano) a gran voce un loro status all’interno del panorama nazionale.
Ecco che le minoranze di allora sono il cavallo di Troia di oggi, allevato in seno ma in malo modo, in cattività, tanto che, senza saper che pesci pigliare, le istituzioni francesi perpetrano questa guerra fratricida e invocano l’esercito.
L’esempio francese è un modello da non seguire per chi talune circostanze comincia a viverle solo oggi.
Imparare dagli errori dei cugini d’Oltralpe per noi italiani, sarebbe non poco.
Ancor più importante che vincere la Coppa del Mondo.

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Friday, October 20, 2006

Dalle stalle alle stelle

Desta preoccupazione la notizia, diffusa solo pochi giorni fa dal Washington Post, che l’amministrazione Bush abbia varato in agosto un piano strategico che pari mirare alla conquista dello spazio per garantire la sicurezza nazionale. Leggi per molti: la corsa agli armamenti si fa lassù.
Al di là del paventato catastrofismo da corsa al riarmo nucleare (ipotesi non azzardata certo, ma finora le intenzioni dell’amministrazione statunitense sono state poco chiare e anche il documento prodotto e reso pubblico si presta a non poche interpretazioni; non solo ma a nessuno fra i mass media sono note le tecnologie di cui gli Stati Uniti si trovano in possesso e che intendono usare o sperimentare), l’episodio è sintomatico di quanto sta accadendo quaggiù, sulla Terra.

Un giorno sì e l’altro pure gli americani invocano la sicurezza nazionale come la dea Kalì: non è di certo un buon segnale che proviene da chi da sempre si è sobbarcato (fra pro e contro) il peso di mantenere un certo equilibrio internazionale; il ruolo degli Stati Uniti è stato messo in discussione con l’undici settembre e le risposte date dall’amministrazione Bush, se ancora si sente il bisogno di invocare quotidianamente la sicurezza nazionale, non sono state efficaci.
E non è un mistero che le due guerre condotte sotto la bandiera a stelle e strisce si stiano rivelando fallimentari. L’Iraq è un pantano: lo stesso presidente statunitense ieri ha dovuto ammettere pubblicamente il confronto con il Vietnam (per saperne di più, clicca qui). In Afghanistan, c’è la maggior recrudescenza di violenza dall’inizio della guerra ad oggi: decisivi saranno i prossimi mesi, ma la fiducia della popolazione nelle forze occidentali va via via sempre più scemando, i talebani riguadagnano terreno assieme ai terroristi e supportati dai signori della droga.
Insomma, questa fuga nello spazio pare sintomatica di un’America che ha fallito e si rifugia tra le stelle. Senza contare che nel nuovo scacchiere della crisi internazionale che si sta delineando, gli americani stessi si stanno ritagliando un ruolo marginale: è successo per il Libano, ma anche la questione nord-coreana è stata pressocchè affidata interamente all’Onu, dove nessuna decisione in merito può essere presa senza il beneplacito della Cina, che a questo punto, guida la partita.
E nonostante quasi un anno fa l’amministrazione Bush avesse testato l’opinione pubblica americana, facendo trapelare alla stampa un dossier su un eventuale attacco militare all’Iran, anche col governo di Teheran l’azione diplomatica o le decisioni da prendere latitano: tutte le trattative passano per l’Unione Europea.

Saranno l’Europa e l’Onu (che sarebbe preposta a ciò, ma che, nella realtà dei fatti, è un’istituzione profondamente da riformare di fronte alle nuove sfide poste dalla contemporaneità) capaci di sopportare il peso e la responsabilità che derivano dal manovrare sullo scacchiere del mondo?
Negli ultimi anni si è discusso non poco del ruolo che gli Stati Uniti hanno giocato sul piano internazionale, sottolineandone pregi e difetti, errori e successi.
E ora che se ne vanno lassù, a noi non resta che sperare di non dover maledire un giorno la nostra distanza dalle stelle.

Per la notizia dagli Esteri: il Giornale

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Wednesday, October 11, 2006

Il diritto di morire, il dovere di vivere: risposte ai commenti

Avvertenze: alle new entry che non hanno seguito il dibattito scaturito dal precedente post consiglio di andarsi a leggere post e commenti (clicca qui), altrimenti risulta difficile seguire il filo. Anche perché tanti sono i problemi messi a fuoco dai commentatori che non mi riuscirà di dare sistematicità a queste righe. Seguirò in particolare le sollecitazioni del commento di Degio, diviso in quattro punti; all’interno di questi quattro punti cercherò di dialogare con i temi posti anche dagli altri commentatori.

Prima di addentrarsi nelle questioni poste da Degio è necessario che io chiarisca perché mi sono avvalso di un’argomentazione filosofica che è parsa (giustamente) fuori luogo ad Aberdiniensis.

Nell’usare, a proposito di eutanasia, l’argomento della libertà che nega se stessa quando ci si uccide in nome della libertà, compio un’azione scorretta se mi avvalgo di tale argomentazione per sostenere l’illegittimità morale e la contraddizione del suicidio nei casi che stiamo trattando; ciò che volevo mettere in luce usando, forse impropriamente, quest’argomento è l’irreversibilità di tale atto, o meglio: di fronte alla manifestata volontà di togliersi la vita, qual è il criterio per assicurarsi che tale volontà sia suffragata da pieno e deliberato assenso, da consapevolezza piena e non transitoria? So che a molti di voi (intendo tra i cari amici che commentano benevolmente questo blog) tali esempi proprio non vanno giù, ma in base ad una logica che promuove l’eutanasia dietro consenso del paziente che ne fa richiesta, essendo impossibile verificarne la piena consapevolezza costante nel tempo, sarebbe un po’ come dire che siamo autorizzati, di principio, ad uccidere qualsivoglia essere umano che almeno una volta nella vita ha pensato di ricorrere al suicidio, magari solo perché una giornata è andata storta (e già qui leggo gli strali di Lama, ma al suo pensiero così strettamente giuridico farò riferimento dulcis in fundo).

Venendo a Degio che per primo ha sollecitato il dibattito: al punto primo del suo commento fa riferimento alla critica che ho posto alla terminologia che spesso si usa quando ci si imbatte in questioni così delicate. Un dibattito va pure iniziato, concordo con Degio, ma usare impropriamente i termini vizia l’inizio del dibattito stesso e quindi il suo stesso svolgimento; la questione può sembrare capziosa ma non lo è affatto: “la stupida ipocrisia verbale, che si cela dietro definizioni etimologiche” (cito l’anonimo, che credo l’avesse con me e non con Aberdiniensis) non appartiene a me, bensì a chi, favorevole a questa presunta dolce morte, nasconde la realtà concreta dei fatti dietro a termini e locuzioni improprie (tanto per inciso, altro paragone che a molti di voi non piacerà, lo facevano anche i nazisti). L’eutanasia è un omicidio, ma il significato della parola non mi pare proprio che lo metta in evidenza. E il suicidio assistito, cos’è? Stare a guardare uno che si uccide? Credo che la locuzione nasconda bene il fatto che prescrivere un farmaco che procura morte comporta una responsabilità morale ancor maggiore che stare a guardare una che si ammazza senza far niente (che già di per sé non è accettabile).

Il punto secondo di Degio, se non erro, tratta di quello che oggi viene chiamato testamento biologico (il termine corretto, o se non altro il primo che ha delineato tale tipo di procedura è living will). Credo di avere punti di convergenza con Degio, specie quando si riferisce all’accanimento terapeutico: tra l’altro, cessare una terapia quando questa risulta mezzo sproporzionato rispetto ai benefici che il paziente ne ricava è cosa che non dovrebbe neanche necessitare del testamento biologico, ma dovrebbe stare al buon senso e alla professionalità del medico capirlo (su come intendere le direttive anticipate, il living will, occorrerebbe un altro post per chiarire il mio pensiero, perché anche qui sorgono dubbi, problemi e perplessità di non poco conto, per quanto io sia di massima favorevole).

Punto terzo. Delicato assai. Proprio perché quelle persone soffrono e hanno dolore davvero, proprio perché loro non rispondono al paradigma dell’uomo funzionale, sono proprio loro che questa società ghettizza, emargina, isola veramente.
Una società che non trova spazio per affrontare dolore, sofferenza e morte (a tal proposito, bello l’intervento di Aberdiniensis sulla rifamiliarizzazione con la morte e col dolore) è una società che ne ha paura e che ben presto si ritroverà senza gli strumenti intellettuali e concettuali necessari per pensarle queste categorie riflettendoci sopra. Ahimè, credo che questi strumenti già manchino se si impone prepotente la volontà di risolvere il problema alla radice, perché questa è l’eutanasia: non fare i conti noi per primi con la paura della morte, del dolore, della sofferenza.
Il peggio, l’ipocrisia più grande, è che lasciamo il peso di queste paure proprio a chi la sofferenza e il dolore li vive in prima persona.
E poi, quasi presi dai sensi di colpa, ci auto-flagelliamo: punto quarto. Purtroppo Degio, non sei tu, non Ruini, non Rutelli e non io a precludere la possibilità di uccidersi a chi, pur in condizioni di infermità, ne esprime il desiderio: è terribile ammetterlo, ma è quella stessa condizione di infermità per la quale alcuni si toglierebbero la vita, che preclude loro tale possibilità. E qui mi riferisco a Lama che scrive: “Io ho sempre pensato che un difetto intrinseco nei politici, negli psicologi e, perché no, anche nei filosofi, sia una ostinata adesione a certi valori, a certe argomentazioni che, pur essendo idealmente ineccepibili, mancano del tassello fondamentale che per me dovrebbe sostenerle...Il realismo, ovvero la funzione pratica”; forse quel difetto intrinseco, è intrinseco anche ai giuristi, che nella smania di mummificare tutto e tutti nelle tavole della legge, dimenticano che esiste la possibilità (cioè la capacità) di uccidersi, ma non vige alcun diritto di uccidersi. Non esiste la tutela del diritto di uccidersi per chi può, onde per cui non vige alcuna discriminazione nei confronti di chi questa possibilità materiale l’ha perduta. Non tener conto di ciò, è mancanza di realismo.

Forse dolore e sofferenza non hanno senso né significato in loro stessi: ciò è da ricercare nelle nostre coscienze, nei nostri cuori, nei nostri ideali, nel nostro credo.
Ma uno sforzo comune per riflettere sul dolore e sulla sofferenza va fatto, da questa riflessione qualche positività deve pur scaturire, un qualche guadagno deve pur avere.
Un guadagno, pur minimo, ma per il quale valga la pena vivere ancora un giorno in più.

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Friday, October 06, 2006

Il diritto di morire, il dovere di vivere

Il termine eutanasia è un inganno; tanto che già nel 1954 il professor Luigi Scremin, docente presso l’università di Siena, preferiva la definizione di “uccisione pietosa”, una locuzione che riporta l’eutanasia a quella che nella realtà dei fatti concreti è: un omicidio. Quella che comunemente è detta eutanasia si configura come la richiesta, da parte di un soggetto infermo o comunque fisicamente inabile, di mettere fine alle proprie sofferenze e ai propri dolori procurandogli la morte; ciò significa che un soggetto esterno debba intervenire materialmente per soddisfare il desiderio del sofferente, ed è su questo soggetto esterno che ricade la responsabilità morale del gesto omicida, al di là del consenso e del desiderio di chi vuole che morte gli sia data, poiché è l’atto che si giudica, nella morale come nel diritto.

Etimologicamente poi eutanasia significa “dolce morte”, altro inganno che fa leva sull’emotività e il luogo comune popolare: ogniqualvolta che aggettiviamo la morte lo possiamo fare solo in virtù di un’osservazione esterna ed estranea; chi potrebbe mai garantirci che l’istantaneità del trapasso sia dolce e non acutamente sofferta? Nessuno, poiché nessuno, ovvio, ha avuto esperienza diretta e soggettiva della morte e vi è sopravvissuto per riportarla alle cronache. Chiamiamo l’eutanasia “dolce morte” così come diciamo “se ne è andato senza soffrire”: ma che ne sappiamo noi?
Così anche ciò che viene definito suicidio assistito è un inganno linguistico: se un medico prescrive un farmaco specificatamente atto a dare la morte al paziente (che comunque, da solo, con deliberato consenso e intenzione procede autonomamente a darsi la morte), ciò in diritto si configura come una istigazione al suicidio, così come in morale si è perpetrato un atto che non ha fatto il bene della persona umana, mancando di tutelarne la dignità e il rispetto: non mettiamo qui in discussione la possibilità di darsi la morte, ma vogliamo fortemente tematizzare come il suicidio sia in sé fonte di contraddizioni e come le nostre azioni, proprio perché viviamo in un contesto eterorelazionale, siano gravide di conseguenze: in una parola, responsabili.

Mettere in atto la possibilità, la scelta di uccidersi, è ciò che priva delle condizioni di scegliere: quale libertà per l’essere umano senza poterla esercitare questa libertà?
La vita è condizione di esercizio della libertà, della scelta, della scelta dei possibili. Rinunciare alla possibilità di scelta perché compiuta quella scelta, è contraddittorio, o quantomeno, controproducente.

Sarebbe poi facile, in un’ottica rigorosamente cattolica, argomentare come la vita sia un bene indisponibile perché essa è dono; la vita è un bene disponibile del quale occorre fare buon uso: occorre ben vivere, rendendo la vita degna di essere vissuta, anche nella sofferenza e nel dolore.
Il problema maggiore per chi soffre è ritrovarsi in una società che lo fa sentire un reietto, un peso; questo perché fa parte oramai della nostra forma mentis, il paradigma della persona funzionale, produttiva: o sei dentro un preciso standard, o sei out. Un modello spietato che si applica pressoché in ogni ambito della vita umana: lavoro, famiglia, scuola, rete d’amicizie, società, finanche istituzioni.
Non a caso d’altronde, spesso chi è a favore dell’eutanasia parla dei malati terminali come di vite ridotte alla sfera biologica (“una vita biologica non è sacra” parole del Ministro Paolo Ferrero su Panorama, pag. 49, numero 40 del 5 ottobre 2006): ma che significa? Una vita umana è una vita umana, non è possibile spezzettarla, frantumarla in quelle che sono le sfere della sua esistenza che stanno fra loro unitariamente. L’esistenza di un individuo umano non è un Lego che si possa smontare e rimontare a piacimento: ogni tassello va a comporre il senso e il significato di un individuo che si relaziona a miliardi di altri individui. E anche chi soffre e prova dolore ha un’esistenza, certo, drammaticamente segnata, ma per questo non priva di senso e significato per sé e per chi con lui si relaziona, per chi gli sta vicino e per chi cerca di condividere con lui questo percorso di vita, per quanto sia possibile, seppure dolorosamente.
Dolore e sofferenza non hanno alcunché di positivo in loro, ma la riflessione che da essi può scaturire, può essere fonte di nuovi stimoli, di energia, di coraggio.
“Solo di fronte all’altro sono colpevole” scriveva Sartre nel suo pessimismo esistenziale; ma questa frase significa anche che solo in relazione con l’altro io acquisto senso e significato, e allora la mia esistenza è con quella dell’altro connessa in uno stretto legame esistenziale a causa del quale e grazie al quale ciò che faccio non è mai indifferente.
Tantomeno la decisione di recidere tale legame.

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Tuesday, October 03, 2006

La serietà al Governo


Era uno degli slogan della campagna elettorale dell’Unione. Finché non arrivarono il caso Telecom prima e la Finanziaria dopo. E fu smentito.
Certo, la Finanziaria è sempre l’occasione buona per mettere il Governo alla berlina, deriderlo, inveirgli contro: non conta quale colore governi, contano i conti, a riprova, tra l’altro, del fatto che la matematica è sempre un’opinione quando è di Stato.
Ma il caso Telecom, quella è tutta prerogativa di Prodi e compagnia bella; riferire al Parlamento sarebbe stato roba da matti, e il giorno dei matti c’è stato: matti al Governo almeno per un giorno, allora, altro che serietà.
La Finanziaria è invece l’ennesima presa in giro degli italiani. Ci sono conti da sistemare? Benissimo, ma siamo onesti. Non è vero che saranno tassati solo coloro i quali percepiscono un reddito annuo superiore o pari a 75000 euro: l’aumento delle tasse è previsto già per quegli autonomi che percepiscono un reddito lordo annuo di 32000 euro. In queste condizioni, parlare di tutela del ceto medio è inconcepibile, un’ipocrisia bella e buona edulcorata dalla menzogna.
E non finisce qui, perché c’è di peggio. Peggio anche della tassazione delle rendite finanziarie della quale finora i giornali non si sono occupati nello specifico, ma che sicuramente è destinata a fare rumore in Parlamento se concepita come la concepiva il segretario dei Ds Piero Fassino a poche settimane dalle elezioni, cioè con un’aliquota unica per tutti, senza distinzione tra belli e brutti (leggi piccoli risparmiatori e grossi speculatori).
Il peggio sono le dichiarazioni del Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, ieri sera al TG5. Al di là dell’aver ammesso la migliorabilità del provvedimento (ammissione che potrebbe denotare giusta e moderata umiltà, ma, a pensar male, anche scarso impegno), il Ministro si pronuncia sui tagli agli Enti locali grossomodo così: sì, è vero, abbiamo operato dei tagli, ma nulla vieta i Comuni di gestire le proprie risorse finanziarie nel modo che ritengano più opportuno per garantire un buon funzionamento della macchina comunale e dei servizi ad essa connessi.
Traduzione: si inventino qualcosa per tirare a campare se hanno difficoltà perché qui, anche se bussano, non sarà loro aperto. Lecito. Però se si è onesti, bisogna anche far capire all’opinione pubblica cosa accade quando un comune tende a voler o dover risparmiare sui servizi. Ebbene fa quello che oggi viene chiamato, con cacofonico termine, l’esternalizzazione dei servizi: cioè cede a gestione privata tutto ciò che dai privati può essere gestito; di conseguenza accade anche che personale comunale, affinché non pesi più a bilancio, venga dirottato su queste società private a svolgere le stesse mansioni di prima, ma di certo non alle stesse condizioni e tutele contrattuali che può fornire un pubblico impiego. Alla faccia della tutela del ceto medio. E pensare che quando l’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti si permise di criticare inutili e dispendiose feste e sagre cittadine, quasi lo mettevano al rogo per difendere la festa del Pipistrello; andato via il Tremonti moralizzatore, il sindaco di Roma Valter Veltroni aggiungeva alla sua Notte Bianca (e sono due all’anno) una Pre-Notte Bianca: a quando una Settimana intera Signor Sindaco? Con straordinari di impiegati comunali, bollette della luce e quant’altro a carico dei Suoi amministrati? Non pretendiamo di vivere nel Paese dei Balocchi né qualcuno che con la bacchetta magica ci risolva d’incanto ogni problema, ma almeno, non ci si dica che il fuoco è bagnato: ci tassino pure, ma almeno, non insultino la nostra intelligenza.

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