Versus vs versus

Friday, March 30, 2007

In alto mare

La nave non è ancora salpata che già parte della ciurma è in piena fase di ammutinamento: in vista del Congresso Ds, prima del varo del Pd, il correntone Mussi spiega le vele verso ben altri lidi e approdi che non sono certo gli stessi di Piero Fassino.

Un progetto, quello del Pd, che nelle sue intenzioni doveva andare ad instaurare un nuovo clima politico volto al dialogo – magari con una speculare formazione di segno opposto d’altra parte – e che invece ha raccolto solo tempesta, provocando una scissione annunciata da tempo, e che con ogni probabilità si consumerà a breve, andando a rafforzare un fronte a sinistra radicale e massimalista.

E nel Pd, se mai si farà, beffa delle beffe, rimane l’ammiraglio british Fassino, circondato da un’infima ciurma di corsari cattolici e poco più, costretto ad una rotta non meglio precisata e bloccato a babordo dal sovraffollamento che da quelle parti si sta venendo a creare, con un Presidente della Camera quale Fausto Bertinotti, che di notte culla il sogno di riunire tutti, lì a babordo, sotto le insegne di una invincibile Corazzata Potemkin.

E se a sinistra si sta in alto mare, nemmeno a destra la navigazione in mare aperto dà i suoi frutti. Dopo le secche della votazione in Senato sul rifinanziamento delle missioni italiane, un po’ tutti hanno perso la bussola: l’UDC e Casini beccheggiano, stretti tra un richiamo al centro della sirena Mastella e un occhio (lungo di cannocchiale) ad un futuro senza Berlusconi e con Fini magari (se solo la smettesse di fare l’attendente del Commodoro), lasciando la Lega a pescare pesci gatti e pigliare siluri nel Po.

Certo è che, per capire le carte nautiche in questo delicato frangente, si ha da essere filibustieri di lungo corso e noi, bipedi terrestri, non si è mica ancora capito qual è il tesoro della Penisola che stanno cercando…

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Tuesday, March 20, 2007

I Gattipardi


Conclusasi felicemente l’avventura del giornalista Daniele Mastrogiacomo, sequestrato in Afghanistan da un gruppo di talebani, si apre lo spazio per importanti considerazioni sul nuovo corso della diplomazia italiana e la linea adottata dalla Farnesina in delicata materia quale quella della politica estera, che più volte ha fatto sudare freddo il premier Romano Prodi nonché vacillare l’attuale maggioranza di governo.
Gestito magistralmente il caso Mastrogiacomo, grazie anche ad un’unità di crisi che nel mondo – caso raro – ci invidiano, rimane da mettere a fuoco quale è stata effettivamente la contropartita che ha reso possibile la liberazione del giornalista italiano, e si parla insistentemente della liberazione di cinque esponenti talebani di spicco, detenuti nelle carceri afgane, in cambio della vita e della liberazione dell’ostaggio italiano. Il governo italiano ha potuto in questo caso avvalersi della collaborazione mediatrice di Emergency, presente sul territorio afghano e che conosce assai bene – si desume - i meccanismi che vigono all’interno di una nazione tanto martoriata e che gode – presumibilmente – dei contatti giusti, probabilmente grazie anche all’opera meritoria che presta in Afghanistan. Ma, quanto è giusto trattare con quelli che sin dall’inizio della guerra in Afghanistan abbiamo imparato a definire terroristi? Mentre in Iraq, col governo Berlusconi, la Farnesina, alle prese col problema degli ostaggi italiani, pare si sia resa disponibile ad una contropartita di natura economica per ottenere la salvezza e la liberazione degli italiani (si pensi al celeberrimo caso delle due Simone), qui l’azione diplomatica ha avuto un percorso e una conclusione nettamente differenti, e che in qualche modo hanno dato il via ad un corso italiano in materia di politica estera che detta, stavolta davvero, una certa discontinuità.
Al di là del fatto che nn si comprende bene cosa ci guadagnino oggi i vertici delle Stato afghano da Karzai in giù, nel liberare cinque detenuti pericolosi per l’ordine (?!) costituito (ed è quindi legittimo pensare anche che lo Stato italiano abbia, sotto varie forme, promesso o già concesso aiuti di natura economica – ulteriori – a beneficio dell’Afghanistan), accettare come contropartita le richieste provenienti dai talebani ha significato anche in qualche modo, implicitamente, riconoscere loro una ratio existendi, riconoscere cioè la guerriglia che conducono come legittima.
In questo senso va inquadrata la proposta italiana di farli sedere al tavolo di una conferenza di pace sull’Afghanistan: la proposta non è solo tesa ad ovviare il conflitto intestino al centrosinistra tra sinistra radicale e moderati sulle spinose questioni di politica estera, ma anche a tracciare un nuovo percorso, sulla scia di quella equidistanza dalemiana già espressa a proposito del conflitto libano-israeliano e sulla delicata questione israelo-palestinese.
Si apre però allora, il problema del come mettere a fuoco la missione Nato in Afghanistan: se la guerra in Afghanistan, al di là della mera reazione statunitense alla tragedia dell’11 settembre, si configurò allora come anche la cacciata di un regime oppressivo e disumano come era quello talebano, che senso ha oggi riservare agli esponenti di quello stesso regime un posto al tavolo delle trattative e della pace? Il tutto assumerebbe i contorni grotteschi di una simil-Restaurazione.
Ancor più paradossale è che il nuovo corso della politica estera italiana potrebbe offrire alla tanto vituperata amministrazione statunitense la famigerata ciambella di salvataggio alla quale aggrapparsi: con un Bush la cui popolarità in patria è ai minimi storici, soprattutto per il pantano iracheno e poi per quello afghano, coinvolgere, sia in Afghanistan come in Iraq, tutte le fazioni presenti sui due territori, ivi compresi e soprattutto gli epurati e diseredati dai due conflitti, potrebbe significare per gli States la possibilità di fare fagotto col minor rumore possibile, salvando un minimo la faccia e la dignità a livello nazionale.
Per quanto praticabile come strada, ciò comporterebbe però riconoscere un sostanziale fallimento di ogni obiettivo che ci si è fin qui posti, dall’utopica esportazione della democrazia in Iraq, al riassetto di un paese in preda al caos quale è l’Afghanistan.

In un clima del genere, vien facile pensare ad un’atmosfera da miseria e nobiltà gattopardesca, laddove tutto cambia affinché rimanga tutto com’è.

P.S. Il post trae spunto da un ottimo e proficuo scambio di opinioni con Lama.

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Tuesday, March 13, 2007

Perché non possono dirsi catto-comunisti

Malgrado gli immani sforzi di un Fassino sempre più grissino, la piazza degli ultimi giorni decreta, seppur indirettamente, il fatto che tra diessini e teodem, il matrimonio non s’ha da fare.
È sulla questione dei DICO che la maggioranza di governo rivela tutta la sua debolezza, dettata da insanabili differenze di matrice culturale e politica.
Tanto alla sinistra radicale e ai laicisti della Rosa nel Pugno, quanto ai cattolici della Margherita e ai Martelliani, non si può chiedere di snaturarsi rinnegando le proprie origini, la propria storia, le radici in cui affondano il loro status politico e il loro modo di fare politica ed intendere la società.
Venuto meno il collante della nefasta egemonia berlusconiana, con il leader dell’opposizione che siede placido sulle rive del fiume in attesa del cadavere del nemico galleggiante sulle acque delle nuove elezioni, la sinistra fa i conti con la drammatica realtà: non ci sono condizioni di principio condivise che permettano un’alleanza duratura né per governare il Paese, né tantomeno per porsi uniti come un nuovo soggetto politico; il Partito Democratico è una chimera la cui concretizzazione ha da vedersela con un fronte cattolico che, per quanto sensibile ai temi della solidarietà sociale, non potrà mai screditare, smentire né rivalersi contro la Dottrina Sociale della Chiesa, né contro la direzione che la Conferenza Episcopale Italiana ha imbastito e percorre su temi quali quello della sacralità della vita e della tutela della famiglia come tradizionalmente intesa. E, d’altra parte, il cosiddetto fronte laicista, composto in primis da radicali e socialisti, sinistra radicale e correntone DS, soffre di una certa miopia politica, ogni qualvolta grida al Vaticano Talebano.
Nessuno, in uno stato di diritto, può imbavagliare chi si rivolge ai propri fedeli in nome del credo che li accomuna; non è un’ingerenza negli affari di uno stato se il capo dei vescovi dice: “Per la Chiesa Cattolica le cose stanno così, regolatevi di conseguenza”. Il problema dei laicisti di maggioranza e governo è semmai avere a che fare, all’interno della propria coalizione, con chi è stato eletto anche perché cattolico, con chi ha una formazione cattolica e agisce in politica sulla base della propria esperienza umana, culturale e di fede, perseguendo quella direzione che trovano naturale, buona e giusta.

Le proteste di piazza svicolano, sono tese a nascondere il fatto che i problemi stanno a Palazzo, non a San Pietro. E, la Chiesa Cattolica, che nell’ultimo periodo si è concentrata, in buona parte della sua comunicazione, su temi sociali rilevanti anche per lo Stato italiano e per questo esecutivo che in parte, anche per motivi ideologici, ha deciso di metterci le mani, si offre inconsapevolmente come parafulmine, capro espiatorio delle difficoltà di una coalizione che non si regge da sola, perché chi la compone si appoggia non al medesimo sostegno, ma ciascuno su fondamenta diverse.
I Ministri scesi in piazza per i DICO assieme ai manifestanti, e il Ministro Clemente Mastella, aspramente contestato dalla piazza in tale occasione, saranno anche i due estremi delle umane genti che navigano le acque a sinistra, ma sono anche la caratterizzazione, i paradigmi di chi discute oggi di unirsi domani nel PD.

Si può forse essere cattolici e laici, ma non cattolici e laicisti; si può forse essere post-comunisti e conservatori ma non post-comunisti e cattolici. Non si può mettere insieme chi crede in una Verità che affonda nella Rivelazione, e chi crede nelle verità o nell’inesistenza della Verità.
Per farla breve: non si possono pesare e sommare le pere con le mele.
E per chi ci tentasse, il conto potrebbe risultare assai salato.

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Monday, March 05, 2007

L'oppio dei popoli

A dispetto dell’allarme droga lanciato nel nostro Paese dal Ministro degli Interni Giuliano Amato, avanza audace la proposta di Rifondazione Comunista, Verdi e Rosa nel Pugno: in vista del nuovo delicato voto sul rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan, queste tre formazioni politiche di maggioranza propongono di inserire nel provvedimento messo ai voti, la possibilità di “avviare una sperimentazione per l'acquisizione dell'oppio afghano ai fini terapeutici.”.
Cui prodest? Ci si domanda. E cioè: chi si intasca i soldi dell’acquisizione dell’oppio afghano?
Michel Chossudovsky di Global Research, in una sua inchiesta sul traffico di oppio afghano, scrive che dei 2,7 miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico afghano, più del 95% “va a finire ai gruppi d'affari, al crimine organizzato e alle istituzioni bancarie e finanziarie. Una percentuale molto piccola finisce ai coltivatori e ai commercianti del paese produttore..
E qui, la proposta di RC, Verdi e RnP si fa paradossale e rivela tutta la sua insensatezza: non solo i proventi del narcotraffico vanno a finanziare i signori della guerra che la Nato fronteggia in Afghanistan ma, secondo Chossudovsky, sempre quei 2,7 miliardi di dollari, grazie al riciclaggio del denaro, si trasformano in una cifra esorbitante che fa gola – ecco il paradosso – a tutte quelle strutture e quegli apparati che partiti dalle radici marxiste e comuniste quali RC contestano di principio; Chossudovsky denuncia come “servizi segreti, potentati d'affari, commercianti di droga e crimine organizzato competono per il controllo strategico sulle vie dell'eroina. Una larga fetta di questi proventi multimiliardari dovuti al traffico di narcotici sono depositati nel sistema bancario occidentale. La maggior parte delle principali banche internazionali insieme alle proprie affiliate nei paradisi fiscali riciclano grandi quantità di narcodollari.”.

Insomma, la ratio sottesa a siffatta proposta rimane mistero imperscrutabile e non rimane che chiedersi: ma chi pensa certe cose, ci è o si fa?


Per la notizia: Corsera

Per l’inchiesta di Michel Chossudovsky tradotta in italiano: comeDonChisciotte

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Friday, March 02, 2007

Il riposo dei Prodi

Alla fine, magari sarà pastetta all’italiana: vuoi perché i figli della Balena Bianca sono stati presi da malsane voglie e antiche nostalgie, vuoi perché, seppure il circo della politica italiana abbonda di clown, gli equilibristi di certo non mancano.
Ma, se così non fosse, gira già voce che dopo la fiducia alla Camera, il tavolo del Consiglio dei Ministri si farà Tavola Rotonda: tutti i prodi di Prodi conteranno uguale, cioè meno di zero.
È tanto inutile quanto assurdo negare che il peso politico del governo italiano, da oggi, sta laggiù, da qualche parte, ventimila leghe sotto i mari, costretto all’immobilismo assoluto per non cadere.
Porti i Dico in Parlamento? Ti ritrovi i cattolici in piazza San Pietro.
Discuti della base di Vicenza e di politica estera? I companeros ti bruciano il sedere coi Cohiba.
Riforma delle pensioni? I sindacati ti aspettano sotto casa.
Testamento biologico? Il Governo fa prima a farselo per sé.
Insomma, uno Stato costretto alla paralisi per i prossimi mesi, con un Governo di fatto impossibilitato a confrontarsi con il Parlamento che forse non si scioglierà – a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca sempre – prima dei celeberrimi 2 anni 6 mesi e 1 giorno, giusto il tempo necessario ai parlamentari per mettersi da parte la pensione.
Lo scivolone di Prodi e dei suoi ha ringalluzzito il Cavaliere Nero, quel Silvio Berlusconi che sembra intenzionato a dar battaglia su tutti i fronti, compresa la riforma di quella legge elettorale che tutti definiscono, con pregevole eufemismo, la porcata. Il Cavaliere sa bene che, porcata o non porcata, a questo giro non è possibile perdere, e alle elezioni si ha da andarci prima che il fascino da sirena obesa di Clemente Mastella possa chiamare a raccolta il figliol prodigo PierFerdi, né tantomeno fulminare il piacione Rutelli sulla via del Terzo Polo.
Mentre al centrodestra tentano di darsi così un assetto variabile secondo le esigenze, al centrosinistra hanno da preoccuparsi di una sola cosa: sanno bene che come ci si muove, si rischia di farla fuori dal vaso. La Ragion Suprema che li tiene tutti uniti è sempre lui, il malefico Silvio Berlusconi: meglio questa situazione d’emergenza, questo equilibrio instabile, ci dicono, piuttosto che il ritorno del Cavaliere, spacciato come la Grande Purga per il popolo italiano.
In verità, il Cavaliere non rappresenta tanto la Grande Purga, quanto il Purgatorio perpetuo del centrosinistra, se il capo dell’opposizione dovesse tornare al governo del Paese.
Il nuovo ordine quindi è: attenti a non farla fuori dal vaso, compagni!
Piuttosto che Berlusconi in versione dolce Euchessina, vi conviene sforzarvi e spingere…

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