Versus vs versus

Friday, October 06, 2006

Il diritto di morire, il dovere di vivere

Il termine eutanasia è un inganno; tanto che già nel 1954 il professor Luigi Scremin, docente presso l’università di Siena, preferiva la definizione di “uccisione pietosa”, una locuzione che riporta l’eutanasia a quella che nella realtà dei fatti concreti è: un omicidio. Quella che comunemente è detta eutanasia si configura come la richiesta, da parte di un soggetto infermo o comunque fisicamente inabile, di mettere fine alle proprie sofferenze e ai propri dolori procurandogli la morte; ciò significa che un soggetto esterno debba intervenire materialmente per soddisfare il desiderio del sofferente, ed è su questo soggetto esterno che ricade la responsabilità morale del gesto omicida, al di là del consenso e del desiderio di chi vuole che morte gli sia data, poiché è l’atto che si giudica, nella morale come nel diritto.

Etimologicamente poi eutanasia significa “dolce morte”, altro inganno che fa leva sull’emotività e il luogo comune popolare: ogniqualvolta che aggettiviamo la morte lo possiamo fare solo in virtù di un’osservazione esterna ed estranea; chi potrebbe mai garantirci che l’istantaneità del trapasso sia dolce e non acutamente sofferta? Nessuno, poiché nessuno, ovvio, ha avuto esperienza diretta e soggettiva della morte e vi è sopravvissuto per riportarla alle cronache. Chiamiamo l’eutanasia “dolce morte” così come diciamo “se ne è andato senza soffrire”: ma che ne sappiamo noi?
Così anche ciò che viene definito suicidio assistito è un inganno linguistico: se un medico prescrive un farmaco specificatamente atto a dare la morte al paziente (che comunque, da solo, con deliberato consenso e intenzione procede autonomamente a darsi la morte), ciò in diritto si configura come una istigazione al suicidio, così come in morale si è perpetrato un atto che non ha fatto il bene della persona umana, mancando di tutelarne la dignità e il rispetto: non mettiamo qui in discussione la possibilità di darsi la morte, ma vogliamo fortemente tematizzare come il suicidio sia in sé fonte di contraddizioni e come le nostre azioni, proprio perché viviamo in un contesto eterorelazionale, siano gravide di conseguenze: in una parola, responsabili.

Mettere in atto la possibilità, la scelta di uccidersi, è ciò che priva delle condizioni di scegliere: quale libertà per l’essere umano senza poterla esercitare questa libertà?
La vita è condizione di esercizio della libertà, della scelta, della scelta dei possibili. Rinunciare alla possibilità di scelta perché compiuta quella scelta, è contraddittorio, o quantomeno, controproducente.

Sarebbe poi facile, in un’ottica rigorosamente cattolica, argomentare come la vita sia un bene indisponibile perché essa è dono; la vita è un bene disponibile del quale occorre fare buon uso: occorre ben vivere, rendendo la vita degna di essere vissuta, anche nella sofferenza e nel dolore.
Il problema maggiore per chi soffre è ritrovarsi in una società che lo fa sentire un reietto, un peso; questo perché fa parte oramai della nostra forma mentis, il paradigma della persona funzionale, produttiva: o sei dentro un preciso standard, o sei out. Un modello spietato che si applica pressoché in ogni ambito della vita umana: lavoro, famiglia, scuola, rete d’amicizie, società, finanche istituzioni.
Non a caso d’altronde, spesso chi è a favore dell’eutanasia parla dei malati terminali come di vite ridotte alla sfera biologica (“una vita biologica non è sacra” parole del Ministro Paolo Ferrero su Panorama, pag. 49, numero 40 del 5 ottobre 2006): ma che significa? Una vita umana è una vita umana, non è possibile spezzettarla, frantumarla in quelle che sono le sfere della sua esistenza che stanno fra loro unitariamente. L’esistenza di un individuo umano non è un Lego che si possa smontare e rimontare a piacimento: ogni tassello va a comporre il senso e il significato di un individuo che si relaziona a miliardi di altri individui. E anche chi soffre e prova dolore ha un’esistenza, certo, drammaticamente segnata, ma per questo non priva di senso e significato per sé e per chi con lui si relaziona, per chi gli sta vicino e per chi cerca di condividere con lui questo percorso di vita, per quanto sia possibile, seppure dolorosamente.
Dolore e sofferenza non hanno alcunché di positivo in loro, ma la riflessione che da essi può scaturire, può essere fonte di nuovi stimoli, di energia, di coraggio.
“Solo di fronte all’altro sono colpevole” scriveva Sartre nel suo pessimismo esistenziale; ma questa frase significa anche che solo in relazione con l’altro io acquisto senso e significato, e allora la mia esistenza è con quella dell’altro connessa in uno stretto legame esistenziale a causa del quale e grazie al quale ciò che faccio non è mai indifferente.
Tantomeno la decisione di recidere tale legame.

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6 Comments:

  • Ciao Versus, effettivamente aspettavo che scrivessi qualcosa sul tema dell'eutanasia, e visto che non concordo praticamente su nulla cerco di esprimere più chiaramente possibile cosa penso. Andiamo per punti.
    1-considerare un problema il fatto che (secondo te) il termine eutanasia sia ingannevole o fuorviante mi sembra piuttosto capzioso, tenendo presente che se deve partire sul tema un dibattito pubblico si svolgerà in un paese in cui una giornalista sente una frase di Socrate e si complimenta per la citazione in latino. Entrando nel merito, però, l'eutanasia è di fatto una morte dolce perché anticipa un evento inevitabile risparmindo all'infermo la prosecuzione del dolore.
    2- Sul suicidio assistito ho forti perplessità anch'io, perché la somministazione di una sostanza che causa il decesso rappresenta in effetti un intervento troppo radicale. D'altra parte trovo che la sospensione dei medicinali e la sostituzione con la sola terapia del dolore (campo in cui l'Italia è allegramente nelle retrovie) sia un atto di pietà e rispetto per la volontà del malato, chiaramente quando questo abbia potuto esprimere in modo inequivocabile la sua volontà.
    3-il punto di reale interesse del tuo scritto è però quando dici : "Il problema maggiore per chi soffre è ritrovarsi in una società che lo fa sentire un reietto, un peso; questo perché fa parte oramai della nostra forma mentis, il paradigma della persona funzionale, produttiva: o sei dentro un preciso standard, o sei out. Un modello spietato che si applica pressoché in ogni ambito della vita umana: lavoro, famiglia, scuola, rete d’amicizie, società, finanche istituzioni." Qui non stiamo parlando di anziani soli o di persone depresse che si sentono inutili, ma di individui che per motivi traumatici o patologici hanno perduto tutte o quasi tutte le funzionalità fisiche per vederle sostituite da sistemi artificiali più o meno insopportabili. Non si tratta di persone che si fanno seghe mentali sul loro status sociale, ma di malati che vivono ogni singolo istante della propria vita nel dolore e nel desiderio che le loro sofferenze possano cessare prima possibile. Ed è qui, per conto mio, che casca l'asino. La scienza medica dà oggi una possibilità che era assolutamente preclusa fino a pochi decenni fa, ovvero la facoltà di prolungare il decorso di determinate situazioni quasi ad oltranza, o comunque per periodi infinitamente più lunghi di quanto non si potesse fare in precedenza. Allungare artificialmente la vita di un malato si sclerosi laterale amiotrofica è già di per sé accanimento terapeutico, condotta che anche la Chiesa considera errata.
    4-Parli di scelte, ma non mi convinci. Credo sia stato Serra (che peraltro non amo più di tanto) a scrivere una cosa sacrosanta : il malato terminale che intende continuare a vivere è nel pieno diritto di farlo, e ci mancherebbe altro. Il povero Welby, invece, è "condannato" a vivere finché la malattia non riuscirà a fermargli il cuore, e la scelta che vorrebbe fare gli è preclusa. E da chi è preclusa, questa scelta? Da noi sani, da me e da te, da Rutelli e da Ruini, da noi che non sappiamo nella maniera più assoluta cosa significa "vivere" in quelle condizioni. Mi piacerebbe, se vuoi, che mi rispondessi.

    ciao
    Degio

    By Anonymous Anonymous, at 1:42 PM  

  • ciao a tutti
    i problemi messi sul tappeto sono tanti e spinosi, non di facile soluzione. soprattutto le argomentazioni di degio mi sono sembrate solide e ben costruite e meritano una risposta adeguata. sarà per me un piacere dialogare con te degio, ti rispondo volentieri, ti chiedo solo qualche giorno di tempo perchè ho un fine settimana e un inizio fitto fitto. solo un po' di pazienza, intanto grazie per i tuoi spunti così anche grazie al lama e al nostro comune amico bonny.
    in attesa magari di altri commenti raccoglierò le idee e vi risponderò in un post apposito al più presto.
    saluti
    AV

    By Blogger Versus, at 7:38 PM  

  • Complimenti, gran bel post, completo e scritto molto bene.
    Personalmente, mi trovo d'accordo con molte delle tue argomentazioni. Trovo molto debole invece, come è stato rilevato, il far leva sulla libertà come irriducibile di fronte alla propria scelta di morire: un atto non può autoelidersi. Beh, invece, per quanto riguarda questa vita, mi pare invece proprio di sì. Io scelgo di uccidermi, questo mi impedisce di avere ulteriori margini di libertà: e allora? Qual è il senso di "non potersi" uccidere perché si elimina la propria libertà? E' un non potere per me dettato solo dalla logica del discorso, senza corrispettivo nei fatti.
    Io non sono contro al suicidio. Sono però contro ogni tipo di intervento atto a accelerare la morte in uno stato che di suo non avrebbe condotto alla morte. Questo è uccidere.
    Ho letto che in questa società dovremmo rispettare ogni libertà, compresa quella di farsi uccidere. Va bene, allora però l'omicidio non va più considerato reato tout court, e bisogna far delle gran belle eccezioni. Siamo sicuri che sia la strada giusta?
    Il tema è centrale. Aspetto ulteriori post, soprattutto perché questo l'ho commentato in lavanderia, aspettando le mie lenzuola...non molto stimolante!
    Ciao a tutti! D'oh

    By Blogger Aberdiniensis (alias Giovanni-D'oh), at 4:37 PM  

  • Evvai bonny! E bombardiamola 'sta Corea!
    Dopo i miei puerili entusiasmi bellici, cerco di risponderti.
    In effetti concordo con te: se qcn e' tenuto in vita in condizioni che non sopporterebbe da solo (cioe' senza macchine...) viene il dubbio sulla liceita' di questo intervento.
    Non e' pero' altrettanto facile capire quando e se la macchina influisce eccessivamente sulla vita del paziente: non e' infatti una macchina che mi fa circolare il sangue durante un'operazione a cuore aperto? Non e' una macchina che mi ha permesso di vivere durante un coma da cui magari poi sono uscito? Eliminiamo anche queste macchine?
    Penso proprio di no. Il limite tra intervento "accanito" e intervento radicale e' troppo sottile. Faccio fatica a distinguere, onestamente.
    Il punto mi sembra sia che se uno e' vivo e' vivo, punto, indipendentemente da cosa lo tiene in vita: e bisogna agire di conseguenza nei suoi confronti, non trattarlo come una cosa. A volte, di fronte alla difficolta' nel discernere tali situazioni sono preso dalla foga relativistica e midico: d'accordo, magari razionalmente non riusciamo a capire, a decidere. pero' abbiamo i sentimenti, lasciamo che ci guidino... Beh, cerco sempre di tenermi lontano da questa strada, la vedo troppo pericolosa e poco stabile.
    Faccio un'eccezione, pero', riguardo al suicidio, che per me resta legittimo. Ma non il suicidio assistito: non e' penalmente possibile far partecipare qcn all'atto della propria morte. Non possiamo decidere per gli altri, ognuno deve decidere per se', entro dei limiti, certo, ma decidere per se' in questo caso vuol dire fare-tutto-da-se', senza medici familiari infermieri a fare da becchini.
    Non conosco il caso Welby in questione, quindi non ne parlo. Posso solo dire che non possiamo decidere cosa "e' degno di essere vissuto" e cosa no. possiamo solo fare il possbilie per amntenere il suo corpo in funzione, senza prendere parte attiva alla sua morte, che prima o poi verra' da sola, quella non si dimentica mai un appuntamento...
    D'oh il lugubre

    By Blogger Aberdiniensis (alias Giovanni-D'oh), at 3:37 PM  

  • Un'altra cosa. Penso che da un lato dovremmo familiarizzare di piu' con al morte, o meglio, tornare a familiarizzare. Non possiamo pretendere di curare tutti e tutto: si muore, e' normale, non possiamo pretendere di vivere una vita senza dolore (e anzi piena di piaceri, che sembra che senza quelli neanche si sia vivi...) e di andarcene nel sonno, cosi', senza pagare dazio alla nostra condizione umana.
    E' normale che si soffra, purtroppo. Come ricorda Dostoevskij, nessuno, nulla, nemmeno Dio, potra' riscattare il dolore di un bambino innocente, nessuno potra' spiegare il perche' una vita si affaccia su questa terra malformata, malata, destinata a vivere solo pochi anni, e nel dolore. E' vita questa? Certo, non possiamo chiudere gli occhi e sperare che "vita" sia solo quella del maschio adulto, sano, con i soldi da spendere il sabato sera e la tipa. Possiamo sperare, e basta.
    Il mio non e' un lassismo condito da pessismismo: dobbiamo afre il possibile per vivere meglio e piu' a lungo, non dico di aspettare e basta. Dico pero' che dobbiamo stare attenti a non perdere il contatto con la realta', a non afre della nostra reazione emotiva alla sofferenza il nostro approccio razionale alla vita.
    Ciao

    By Blogger Aberdiniensis (alias Giovanni-D'oh), at 3:44 PM  

  • il post è intriso di bigottismo è di una stupida ipocrisia verbale, che si cela dietro definizioni etimologiche fine a se stesse....deludente vedere che per talune persone "indottrinate" che si avallano il diritto di parlare di bioetica senza sapere in realtà che cosa sia, nn mettano in evidenza un aspetto importante che è quello della "QUALITA' DELLA VITA" dell'essere umano....
    ... provo pietà per chi resta ancora arroccato su queste idee... e per causa loro che la scienza viene imbavagliata e per colpa loro che mentre il progresso avanza NOI restiamo fermi....

    By Anonymous Anonymous, at 4:09 PM  

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