Versus vs versus

Wednesday, October 11, 2006

Il diritto di morire, il dovere di vivere: risposte ai commenti

Avvertenze: alle new entry che non hanno seguito il dibattito scaturito dal precedente post consiglio di andarsi a leggere post e commenti (clicca qui), altrimenti risulta difficile seguire il filo. Anche perché tanti sono i problemi messi a fuoco dai commentatori che non mi riuscirà di dare sistematicità a queste righe. Seguirò in particolare le sollecitazioni del commento di Degio, diviso in quattro punti; all’interno di questi quattro punti cercherò di dialogare con i temi posti anche dagli altri commentatori.

Prima di addentrarsi nelle questioni poste da Degio è necessario che io chiarisca perché mi sono avvalso di un’argomentazione filosofica che è parsa (giustamente) fuori luogo ad Aberdiniensis.

Nell’usare, a proposito di eutanasia, l’argomento della libertà che nega se stessa quando ci si uccide in nome della libertà, compio un’azione scorretta se mi avvalgo di tale argomentazione per sostenere l’illegittimità morale e la contraddizione del suicidio nei casi che stiamo trattando; ciò che volevo mettere in luce usando, forse impropriamente, quest’argomento è l’irreversibilità di tale atto, o meglio: di fronte alla manifestata volontà di togliersi la vita, qual è il criterio per assicurarsi che tale volontà sia suffragata da pieno e deliberato assenso, da consapevolezza piena e non transitoria? So che a molti di voi (intendo tra i cari amici che commentano benevolmente questo blog) tali esempi proprio non vanno giù, ma in base ad una logica che promuove l’eutanasia dietro consenso del paziente che ne fa richiesta, essendo impossibile verificarne la piena consapevolezza costante nel tempo, sarebbe un po’ come dire che siamo autorizzati, di principio, ad uccidere qualsivoglia essere umano che almeno una volta nella vita ha pensato di ricorrere al suicidio, magari solo perché una giornata è andata storta (e già qui leggo gli strali di Lama, ma al suo pensiero così strettamente giuridico farò riferimento dulcis in fundo).

Venendo a Degio che per primo ha sollecitato il dibattito: al punto primo del suo commento fa riferimento alla critica che ho posto alla terminologia che spesso si usa quando ci si imbatte in questioni così delicate. Un dibattito va pure iniziato, concordo con Degio, ma usare impropriamente i termini vizia l’inizio del dibattito stesso e quindi il suo stesso svolgimento; la questione può sembrare capziosa ma non lo è affatto: “la stupida ipocrisia verbale, che si cela dietro definizioni etimologiche” (cito l’anonimo, che credo l’avesse con me e non con Aberdiniensis) non appartiene a me, bensì a chi, favorevole a questa presunta dolce morte, nasconde la realtà concreta dei fatti dietro a termini e locuzioni improprie (tanto per inciso, altro paragone che a molti di voi non piacerà, lo facevano anche i nazisti). L’eutanasia è un omicidio, ma il significato della parola non mi pare proprio che lo metta in evidenza. E il suicidio assistito, cos’è? Stare a guardare uno che si uccide? Credo che la locuzione nasconda bene il fatto che prescrivere un farmaco che procura morte comporta una responsabilità morale ancor maggiore che stare a guardare una che si ammazza senza far niente (che già di per sé non è accettabile).

Il punto secondo di Degio, se non erro, tratta di quello che oggi viene chiamato testamento biologico (il termine corretto, o se non altro il primo che ha delineato tale tipo di procedura è living will). Credo di avere punti di convergenza con Degio, specie quando si riferisce all’accanimento terapeutico: tra l’altro, cessare una terapia quando questa risulta mezzo sproporzionato rispetto ai benefici che il paziente ne ricava è cosa che non dovrebbe neanche necessitare del testamento biologico, ma dovrebbe stare al buon senso e alla professionalità del medico capirlo (su come intendere le direttive anticipate, il living will, occorrerebbe un altro post per chiarire il mio pensiero, perché anche qui sorgono dubbi, problemi e perplessità di non poco conto, per quanto io sia di massima favorevole).

Punto terzo. Delicato assai. Proprio perché quelle persone soffrono e hanno dolore davvero, proprio perché loro non rispondono al paradigma dell’uomo funzionale, sono proprio loro che questa società ghettizza, emargina, isola veramente.
Una società che non trova spazio per affrontare dolore, sofferenza e morte (a tal proposito, bello l’intervento di Aberdiniensis sulla rifamiliarizzazione con la morte e col dolore) è una società che ne ha paura e che ben presto si ritroverà senza gli strumenti intellettuali e concettuali necessari per pensarle queste categorie riflettendoci sopra. Ahimè, credo che questi strumenti già manchino se si impone prepotente la volontà di risolvere il problema alla radice, perché questa è l’eutanasia: non fare i conti noi per primi con la paura della morte, del dolore, della sofferenza.
Il peggio, l’ipocrisia più grande, è che lasciamo il peso di queste paure proprio a chi la sofferenza e il dolore li vive in prima persona.
E poi, quasi presi dai sensi di colpa, ci auto-flagelliamo: punto quarto. Purtroppo Degio, non sei tu, non Ruini, non Rutelli e non io a precludere la possibilità di uccidersi a chi, pur in condizioni di infermità, ne esprime il desiderio: è terribile ammetterlo, ma è quella stessa condizione di infermità per la quale alcuni si toglierebbero la vita, che preclude loro tale possibilità. E qui mi riferisco a Lama che scrive: “Io ho sempre pensato che un difetto intrinseco nei politici, negli psicologi e, perché no, anche nei filosofi, sia una ostinata adesione a certi valori, a certe argomentazioni che, pur essendo idealmente ineccepibili, mancano del tassello fondamentale che per me dovrebbe sostenerle...Il realismo, ovvero la funzione pratica”; forse quel difetto intrinseco, è intrinseco anche ai giuristi, che nella smania di mummificare tutto e tutti nelle tavole della legge, dimenticano che esiste la possibilità (cioè la capacità) di uccidersi, ma non vige alcun diritto di uccidersi. Non esiste la tutela del diritto di uccidersi per chi può, onde per cui non vige alcuna discriminazione nei confronti di chi questa possibilità materiale l’ha perduta. Non tener conto di ciò, è mancanza di realismo.

Forse dolore e sofferenza non hanno senso né significato in loro stessi: ciò è da ricercare nelle nostre coscienze, nei nostri cuori, nei nostri ideali, nel nostro credo.
Ma uno sforzo comune per riflettere sul dolore e sulla sofferenza va fatto, da questa riflessione qualche positività deve pur scaturire, un qualche guadagno deve pur avere.
Un guadagno, pur minimo, ma per il quale valga la pena vivere ancora un giorno in più.

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12 Comments:

  • Ciao! si vede che in bioetica sguazzi come un pesce nell'acqua!
    Accetto la precisazione sul ruolo della libertà.
    Ho ancora però una perplessità sulla necessità di un totale, continuo assenso alla propria morte: quante volte nella vita decidiamo senza essere, diciamo così, sradicati dalla situazione in cui ci troviamo? Quante scelte sono dettate dalle circostanze e non completamente libere?
    Nessuno vuole morire; in certe condizioni lo si può volere. Aristotele (ahh, noi "indottrinati"...) parla di azioni semi-libere. Beh, ma sempre un granello di libertà c'è.
    Ottima la tua riflessione sull'impossibilità materiale di uccidersi: concorda con la mia difesa del suicidio, ma NON del suicidio assistito (altresì definibile, e con meno ipocrisia, omicidio di consenziente...).
    Attendo, come te, immagino, le altre voci, specie, io personalmente il genio della lampada, il difensore della "qualità della vita", se non è troppo preso a godersi la vita tra mille aperitivi e tipe.
    Ciao socio!(Scusami l'uso semi personale di questo spazio...:-))

    By Blogger Aberdiniensis (alias Giovanni-D'oh), at 10:29 PM  

  • È da tempo immemore che non visito il blog del caro Versus, e dalla mia ultima visita noto che i toni si sono accesi parecchio…
    Il tema dell’eutanasia è complesso perché tange molti ambiti: morale, sociale, scientifico, etico (solo per citarne alcuni).
    Questo mi serve per dire che non credo sia possibile trovare una chiave di lettura universale, sia che a parlare sia un filosofo, uno scienzato, o un esimio esperto di bioetica.
    Quello che si può fare è trovare una propria prospettiva nell’affrontare un dibattito civile… cosa che forse ora nn si verifica tra questi commenti.
    Ma cerchiamo, per quanto possibile, di fare un poco di ordine.
    Non è importante essere favorevoli o contrari alla dolce morte. È importante porre l’accento su una questione ben più importante: la possibilità di scegliere, di disporre della propria vita secondo convincimenti legittimi che devono essere in assoluto rispettati, ache se non condivisibili.
    Ciascuno di noi deve poter scegliere se vivere o morire qualora venisse colpito da grave malattia. Appare, quindi, chiaro che non si tratta di un problema di coscienza, ma di un problema di diritto.
    Non si tratta di essere credenti o atei ortodossi,come il sottoscritto, ma si tratta di salvaguardare il diritto della libertà di scelta.
    Ciascuno di noi, infatti, individualmente ha coscienza di ciò che si aspetta dalla sua vita e ne stila, così, una realtà fenomenica che palesa le proprie aspettative.
    Questo concetto possiamo definirlo come QUALITA’ DELLA VITA o SANITA'. Appare ovvio, ma tengo a precisare giusto per non cadere in fraintendimenti, che il concetto sopra esposto è decisamente più ricco del concetto medico di salute biologica. Il primo comprende sia una serie di parametri scientifici universalmente ritenuti come fondamentali alla sopravvivenza di un organismo (persona), sia una serie di convincimenti personali che trovano radice nel modo di percepire la vita come insieme di esperienze e di scambio con altri organismi; il secondo, invece, è una serie di valori (numeri) tabulati che non considerano affatto il background culturale – emozionale dell’individuo.
    La base di questa mia breve trattazione risiede nel convincimento che limitare la libertà di scelta significa far morire la democrazia: è di certo non è una dolce morte !!!
    Mi congedo invitandovi a lottare per i grandi ideali, per evitare che questi svaniscano sotto la polvere sollevata da sterili discussioni… dibattete sì, ma sempre con criticismo e con cognizione di causa… parlate con il vostro interlocutore, non aggreditelo perché questo vi permette per pochi attimi di sentirvi più forti…
    Vi rammento solo che la farfalla per volare, il più nobile tra i gesti, sbatte le ali con un surreale silenzio che appare divino.

    Buona vita


    Skakkomatto

    By Anonymous Anonymous, at 9:54 AM  

  • Da 'osservatrice' quotidiana della sofferenza umana vorrei sottolineare alcune cose:
    1) Una legge (che non vuol dire 'liberalizzazione' o sdoganamento della libertà di uccidere chi soffre) è necessaria. Al momento TUTTE le decisioni su questi pazienti vengono prese autonomamente dai medici con un preventivo colloquio con i parenti (visto che stiamo parlando in realtà di persone che non sono in grado di comunicare), poichè che non esiste nemmeno una norma che inviti a non procedere con un accanimento terapeutico.

    2) Assolutamente sono contraria a proporre la 'qualità della vita' tout court come argomento a favore di una forma di eutanasia, ma fra proporre questa 'qualità' ed accettare che per alcune persone la 'sofferenza' (intendo sofferenza fisica) diventi un 'valore' ci passa un bel po', soprattutto quando questa sofferenza fisica è preludio invitabile (anche se non quantificabile in termini temporali)alla fine 'naturale' (sic). Che poi la comunità degli individui debba accertarsi che la sofferenza sia compresa ed accettata (e soprattutto combattuta tramite l'ausilio -ancora in Italia ahimè siamo al medioevo in questo- dei farmaci antodolorifici maggiori)e trovi medici, infermieri e STRUTTURE in grado di supportare i malati terminali, questo mi pare ovvio e condivisibile.

    By Anonymous Anonymous, at 12:16 PM  

  • Ciao a tutti,
    mi inchino davanti a tutti questi interventi di Versus e rispettivi commenti di uomini illustri. Confesso la mia ignoranza in materia, ma, nonostante ciò, penso che nessuno sia ignorante riguardo a quella materia che non si insegna sui banchi di scuola e che risponde al nome di Vita. Per questo, le questioni sollevate toccano anche me, il mio intelletto, ma soprattutto il mio cuore. Tuttavia, rispetto alla disputa filosofico-teologica tipica del medioevo, preferisco la genuinità di una fiaba, dove l'immediatezza della narrazione mette bene in risalto quanto, nonostante tutto, la Vita valga la pena di essere vissuta fino alla fine dei suoi giorni.

    Prima di iniziare il racconto colgo l'occasione per salutare tutti quelli che mi conoscono, in particolare il Circolo dell'Aposteriori, di cui sono Membro.

    "Sotto un'enorme fascina di legna, un vecchio boscaiolo si trascinava stanco, curvo e trafelato verso la sua povera capanna. A tal punto gli mancavano le forze che, sentendosi venir meno, adagiò a terra il pesante carico e così mormorò in un sospiro: - Il cielo mi ha destinato una gran bella sorte in questo mondo! Sempre alle prese con la miseria e la povertà, sempre a litigare con le cinque lire e, come se non bastasse, moglie, figli, tasse, sofferenza, debiti da pagare e angherie da subire. O morte, levami una buona volta questo fardello insopportabile, vieni a prendermi ora!
    La morte, che non si fa chiamare due volte, viene subito e gli dice: - In che cosa posso servirti, buon vecchio?
    E il boscaiolo di rimando: - Oh, non è nulla, volevo soltanto chiederti di aiutarmi a portare questa fascina fino a casa..."

    By Anonymous Anonymous, at 9:00 PM  

  • Scrive Versus (e mi scuso per la citazione "rubata"): "è terribile ammetterlo, ma è quella stessa condizione di infermità per la quale alcuni si toglierebbero la vita, che preclude loro tale possibilità". Penso che queste parole valgano come risposta sia per skakkomatto, sia per bonny.
    Noi non facciamo discorsi tra le nuvole, parliamo con una certa conoscenza non della situazione (io non ho neanche conoscenti, per fortuna, costretti in una situazione simile), ma dei principi che la regolano. Non è vero che bisogna giudicare di una situazione solo se ci si trova immersi: Esempio cretino, ma efficace: uno innamorato, proprio perché innamorato, spesso non decide il meglio per sé, perché non a-criticamente.
    Le parole di Versus mi sembrano chiare: alcuni di noi inneggiano alla libertà individuale (gran cavallo di battaglia di molto spirito novecentesco...) come cifra inesauribile dell'individuo. va bene. Ma un malato non è già privato di questa fantomatica libertà nel momento in cui si ammala? Già per il solo fatto di essere malato, non può più valutare liberamente dalla malattia, quindi non è più libero.
    Ma siamo liberi anche noi "sani"? Giudichiamo sempre in piena libertà?
    Quello che voglio dire è che questo criterio della libertà è molto molto debole. E' troppo limitato nel tempo, troppo influenzabile, troppo limitato alla mera sfera dell'agire (faccio-quello-che-voglio-quindi-sono-libero).
    L'unica libertà che concepisco è quella che ogni singolo individuo, da solo, può progettarsi. Da solo, non, in questo caso, con l'aiuto dei medici, o degli infermieri. Altrimenti si ricade in casi già trattati.
    E neanche, ovviamente, libertà di fare qualsiasi cosa. Ma è tanto difficile capire che la libertà per la libertà non porta a nulla? E' come avere mille fogli bianchi, e non sapere che scriverci.

    By Blogger Aberdiniensis (alias Giovanni-D'oh), at 9:06 PM  

  • Nel rispondere mi concentro i tuoi punti tre e quatto, che mi paiono i più interessanti.
    Torni a parlare di ghettizzazione e di emarginazione, ma queste sono condizioni *fisiologiche* per un malato di distrofia muscolare come Welby o uno di sclerosi laterale amiotrofica come l'ex capitano del Genoa Gianluca Signorini. L'emarginazione, di fatto, è intimamente connessa con malttie di questo tipo, che hanno l'atroce caratteristica di smantellare il fisico e lasciare integre fino all'ultimissimo momento le facoltà mentali, perché l'individuo finisce per rimanere incatenato al letto e per vedere la morte arrivare in un modo così graduale da desiderare soltanto la liberazione dalle proprie sofferenze. A proposito di Welby, suggerisco di andare a leggere il sito in cui scrive, o in alternativa di dare un'occhiata all'articolo uscito su Panorama della settimana scorsa. E sempre da leggere c'è l'intervista di Don Verzé (a capo del San Raffaele di Milano, non esattamente un bolscevico o un radicale) sul corriere di venerdì, in cui ammette di aver fatto staccare il respiratore ad una amico, dietro sua richiesta. C'è chi ha sollevato un problema importante : come si fa a decidere se una persona è in grado di esprimersi nel pieno delle sue facoltà? Non ho le conoscenze necessarie per dare una risposta "legale", ma credo che medici e/o notai abbiano tra le loro prerogative proprio questo; si potrà obiettare che nessuno sia veramente in grado di stabilire se una persona ci è o ci fa, ma si ricadrebbe nella filosofia da un euro al chilo che tanto irrita l'amico Bonanno...:-)
    Per tornare a quello che hai scritto, non penso che un discorso sull'eutanasia sia legato alla paura del dolore e della morte, anzi : se vogliamo è il contrario, è proprio la paura dei sani a coprire la vita con un velo di intangibilità che fa accettare la morte quando è proprio clinicamente inevitabile; si sta perdendo a pallone ma si vorrebbe che l'arbitro non fischiasse mai, il problema è che se ha senso considerare la vita intoccabile quando non si hanno particolari problemi, le cose cambiano in modo netto per un Coscioni, o un Welby...Momento. Tu scrivi "non sei tu, non Ruini, non Rutelli e non io a precludere la possibilità di uccidersi a chi, pur in condizioni di infermità, ne esprime il desiderio: è terribile ammetterlo, ma è quella stessa condizione di infermità per la quale alcuni si toglierebbero la vita, che preclude loro tale possibilità". Non ho mai scritto che Welby si vuole suicidare. Al limite si potrebbe chiedere a lui, ma per quel che ne so io, lui chiede di essere *lasciato morire*, e converrai che è leggermente diverso. Si torna al punto che ho sottolineato nel commento precedente, se negli scorsi decenni le malattie di cui si sta parlando portavano a una morte relativamente veloce per insufficienza respiratoria, adesso il decorso è stato allungato, senza però migliorare le condizioni del malato che paradossalmente vede prolungarsi uno stato di sofferenza punitivo e privo di ogni stimolo ad andare avanti. Per questo problema, credo che una normativa sul testamento biologico ben studiata potrebbe aiutare, e molto. Non auspico che si sancisca il diritto al suicidio, in compenso spero che la volontà espressa da persone perfettamente in grado di far sentire una voce decisa quanto straziante possa essere rispettata, e francamente se questa scelta va difesa solo con la sospensione delle cure o con la somministrazione di sostanze a me pare secondario. A Genova per ogni problema si trova una frase, magari un po' acida ma ricca di appigli con la realtà : in questo caso non si può essere bulicci col culo degli altri, imponendo la vita a chi non la vuole più (ai miei occhi con ragione) ed è talmente prostrato da non poter "far da sé".

    ciao
    Degio

    By Anonymous Anonymous, at 9:22 PM  

  • Colgo l’occasione per ringraziare tutti (anche te bonny, anche se non ti ho citato nel post, so che non me lo perdonerai mai…..:-)), stiamo dando vita ad un dibattito a mio avviso di notevole livello e credo che l’intervento di iniqua, che benevolmente si è inserita nel dibattito, per l’occasione, offrendoci un punto di vista più completo per esperienza e professione, stia lì a dimostrarlo.
    Io preciso solo un paio di cose poi taccerò. Con degio credo di condividere una comune sensibilità su tali temi; a dividerci penso sia soprattutto quella distinzione che io faccio tra eutanasia e cessazione dell’accanimento terapeutico che per me è fondamentale: sono due cose estremamente differenti (leggendo bene le dichiarazioni di don Verzè ieri e oggi sul Corsera, mi spiace per gli amici “laicisti” come Bonny che intonavano già alleluia rivolti al cielo, si configura più un’ipotesi di cessazione dell’accanimento terapeutico, e non un caso di eutanasia). Se io e degio dialogassimo solo di cessazione dell’accanimento terapeutico saremmo probabilmente come Cip&Ciop, ma questo credo con chiunque abbia preso parte al dibattito (tanti Cip&Ciop insomma).
    Quanto all’accusa di non essere realista (per formazione filosofica, mi si addebita) credo francamente si tratti di un’accusa infondata: nessuno mi ha finora imputato di aver scritto fantascienza sull’argomento….la mia è un’opinione fondata tanto quanto altre; trovo meno realiste delle mie, certe costruzioni giuridiche che mirano sempre a salvare capra e cavoli in un atteggiamento piuttosto dimesso e poco responsabile, dimenticandosi che non è il diritto che fonda l’etica ma semmai è il contrario (riflessione stimolatami da beppe oggi…grazie….ah lama, scusa, ma la frecciatina ci andava…’sta accusa di antirealismo proprio non mi va giù!!!!).
    Io non interverrò più ma leggerò volentieri tutti i vostri commenti, sempre tutti molto preziosi.
    Grazie di cuore
    AV

    P.S. aberdiniensis mi ha preceduto di poco ma sostanzialmente la mia risposta sintetica per lama coincide con la sua più articolata: l’etica fonda il diritto non il contrario. Chiedo allo scozzese se è d’accordo. Ciao a tutti!

    By Blogger Versus, at 8:07 PM  

  • caro bonny,
    se non ho mai parlato del caso specifico di welby (così come mai ho chiamato in causa altri casi specifici) è perchè per discutere bene e senza posizioni preconcette di un caso specifico occorre conoscerlo bene. io nn conosco ne pretendo di conoscere la cartella clinica di welby. magari per te ha poca importanza, nn so, per me ne avrebbe se dovessi parlarne...i servirebbe a dire il vero anche un medico che mi faccia da interprete laddove io eventualmente nn capisca. cmq, ciò per spiegare perchè nn parlo di casi singoli...e come dire che un comitato di bioetica di un oispedale si pronunci su di un caso senza sapere di che si tratta ma sulla base di quattro principi in croce di cui ognuno si fa portatore (questa è tra le righe un'altra risposta all'accusa rivoltami di non essere realista...:)).
    quanto a don Verzè, per quel che si evince dai suoi interventi sul Corsera, si configura l'ipotesi non di un atto di eutanasia ma di cessazione dell'accanimento terapeutico, che nn solo il nostro diritto nn punisce, ma si tratta di un atto pienamente sensato e condivisibile come più volte ho scritto (e diverso dall'eutanasia...come più volte ho scritto: ti piaccia oppure no, uccidere il paziente e lasciare che la morte sopraggiunga secondo natura perchè non esistono più terapie PROPORZIONATE e atte al fine di tenere in vita il paziente, sono due cose diverse).
    quanto al diritto, se questo è foto del tepo attuale bene, ma nn dirmi che è una specie di carnevalata delle morali, dove principi e fini di morali differenti coesistono beatamente perchè nn è così: si sceglie un orientamento, probabilmente quello che salvaguarda maggiormente le libertà individuali (tra l'altro vale nelle società democratiche, lo stesso discorso nn si può fare per ben altri regimi...), ma sempre un orientamento è, nn un minestrone insensato che legifera differentemente su ogni singola questione che la vita pone quotidianamente, in base alle esigenze di ciascuno come lama ogni tanto mi da l'impressione di sostenere....oggi provoco!
    ciao a tutti!
    AV

    By Blogger Versus, at 11:24 AM  

  • Wow! Come si fa a stare zitti in questo marasma di commenti?
    Quindi dirò la mia di nuovo, cercando di attenermi alla nuova moda della "provocazione"... :-)
    Dunque, cerchiamo di fare ordine: ovvio che la cessazione di un trattamento senza speranze NON è equiparabile all'eutanasia. Anche Giovanni Paolo II ha chiesto espressamente, il giorno prima di morire, che gli si sospendessero trattamenti ormai senza speranza. Sull'eutanasia resto della mia opinione: non si può chiedere a qcn di farsi uccidere senza che questo sia colpevole di omicidio.

    Fatemi ora difendere la categoria a cui spero di appartenere: non è vero, mi siace doverlo risottolineare, che i discorsi che staimo facendo sono privi di realismo. Che cos'è infatti "realismo": essere d'accordo con voi e basta? Cioè, spiegatemi, se concedo l'eutanasia a qcn sono realista, se invece lo considero inviolabile in quanto essere umano (inviolabile di diritto, non di fatto) faccio castelli di idee per aria. Ditemi dove il vostro ragionamento ha i piedi per terra e dove il mio no.
    E' mai possibile che ormai si sia talmente tanto disabituati alla sofferenza che non si considera più "uomo" chi è in condizioni cliniche gravissime? Ma sì, facciamogli 'sto favore, uccidiamolo! Io non sono cattolico, quindi non mi si replichi con influenze ecclesiastiche, please (simpaticissimo anonimo, dove sei? Ci manca la tua "infeconda facundia"! Ah, noi indottrinati!).

    Morale e diritto. Bene, una pillola di filosofia del diritto in poche righe. "Non esisterà mai una morale, ma esisterà un diritto". Utopistico, direi, poi si taccia noialtri di non essere realisti... Cmq, la morale regola il diritto: guardate, questo non l'ho deciso io. Mi spiace per i giuristi, che vorrebbero matematizzare il loro settore per renderlo del tutto autonomo, MA per decidere cosa è giusto o no (Diritto!) ci si deve appellare ad una idea fondamentale di uomo, di giustizia, di felicità. E questo senza morale è impossibile. Senza rischia di essere qcs di separato dal mondo, scritto su carta, ma senza vita (non realistico!). Il nostro diritto è profondamente cristiano, con forti basi classiche: negarlo è inutile perché impossibile. Se e quando ci sarà un dirtto unico, caro bonny, ci sarà di conseguenza una morale unica, piaccia o no a voi relativisti: infatti, come potreste dire a qcn di fare qcs perché è giusto se non lo considera lui stesso giusto?
    La pluralità di morali cui accennate NON implica una pluralità di diritti: la possibilità di compiere più scelte diverse riguardo un caso particolare (i.e. l'eutanasia) non comporta immediatamente l'esistenza di più diritti insieme, ma, allo stesso tempo, neanche di più morali. Ci si muove infatti nello stesso alveo, solo in modi diversi.

    Per lama: scusami, di nuovo, nel vostro prendere-e-non-prendere-posizione leggo: "Se una persona vuole morire, e dico che forse sarebbe ora di discutere che lo Stato permetta una soluzione in tal senso, NON DICO che l'omicidio è liberalizzato o che l'eutanasia non sia un omicidio; SE DICO che sugli embrioni sovrannumerali, quelli che non possono più nascere, invece di buttarli via, si dovrebbe sperimentarci, NON DICO che la sperimentazione sugli embrioni sia libera e giusta". Scusa ma non ha senso. O meglio, spero di aver capito dove vuoi parare: se uccidere un uomo non è omicidio, cos'è? Se sperimentare su embrioni non è sperimentare su esseri umani, cos'è? Se conservare in frigo embrioni non è conservare in frigo esseri umani, cos'è?
    Io resto sempre e solo a livello speculativo (di nuovo, e per l'ultima volta: le idee regolano il mondo, non esiste l'antitesi idee-fatti, o idee-realismo...), per me uno che dicesse: "Va bene, questo embrione è un uomo, ma preferisco sperimentarci lo stesso", lo apprezzerei di più di chi dicesse: "No, non è un uomo, quindi sperimento". Per due motivi: 1) riconosce una verità, pur negandola di fatto; 2) noj si maschera dietro le parole: basta convincersi che qcs è "non -uomo" (perché l'uomo è sacro, no?) per farci quello che si vuole.

    Sono stato prolississimo, e chido scusa. spero di aver raggiunto l'obiettivo della chiarezza, visto che ho mancato quello della brevità.
    Cheers

    By Blogger Aberdiniensis (alias Giovanni-D'oh), at 7:05 PM  

  • cari amici,
    non vorrei che la nostra querelle sfociasse nel personale: mi accorgo che una cosa è parlarne a tu per tu, altra è scriverne; e forse il bello è anche questo.

    premessa fatta.

    per bonny: siamo d'accordo sulla cessazione dell'accanimento terapeutico, benissimo. tu chiedevi di ritornare ai casi particolari e se nel caso di welby è possibile configurare un'ipotesi del genere. e io ti rispondo nn lo so perchè nn conosco la sua situazione clinica, e d'altronde capisci anche tu che per quanto io prenda per vero ciò che i media riportano con assoluta fiducia "dunque...SE i media hanno riferito correttamente, welby si troverebbe in una situazione senza speranze, senza possibilità di miglioramento, vita insostenibile resa possibile solo tramite un forte accanimento terapeutico...ripeto, SOLO SE I MEDIA HANNO RIFERITO IL GIUSTO..."

    QUESTA NON É UNA CARTELLA CLINICA.
    cosa intendano i giornalisti per forte accanimento terapeutico, io non lo so: tu lo sai?

    per lama: intanto mi associo ad aberdiniensis e, se permetti, rincaro e ti cito: "per come vedo io l'eutanasia, sarebbe lo stato il sogg abilitato a UCCIDERE sostanzialmente chi è nelle situazioni che ho detto. Non chiunque, né per qualsiasi motivo.", e poi: "Non vorrei farmi troppo contorto e discutere della specifica disciplina che dovrebbe avere l'eutanasia per essere ipotizzabile, ma una strada non dissimile a questa ritengo dovrebbe essere percorsa, così come in Svizzera. Per "consentirne l'applicabilità" MA NON ESALTARNE MORALMENTE O IDEOLOGICAMENTE LA SUA EFFETTIVA ATTUAZIONE. So che può apparire ipocrità, ma non lo è affatto. é la famosa contemperazione di interessi (non di diritti) con cui uno stato deve, prima o poi, volente o nolente, fare i conti."

    da queste tue parole configuri l'eutanasia come un reato depenalizzato: lo stesso caso della legge 194 sull'aborto.
    bene. però mi sembra che tu stesso abbia più volte segnalato nei nostri colloqui come nell'applicazione della 194 il concetto di pericolo per la salute psico-fisica della donna al quale fa richiamo la legge sia stato enormemente dilatato. allora, se nel caso della 194 abbiamo un'applicazione della legge che non risponde all'intenzione del legislatore, nella tua ottica, mi spieghi da dove ti deriva questa sproporzionata fiducia per la quale "(nel)l'eutanasia, sarebbe lo stato il sogg abilitato a UCCIDERE sostanzialmente chi è nelle situazioni che ho detto. Non chiunque, né per qualsiasi motivo."?!
    questo mi porta a pensare che il tuo canone regolativo di legge, per quanto io lo condivida nella nobiltà dei tuoi intenti, sia 1000 volte più ideale e 100 volte meno realista dei miei principi filosofici.

    ciao a tutti
    AV
    P.S. perdonate eventuali refusi ma vado di fretta!!!

    By Blogger Versus, at 7:52 PM  

  • vi ricordate qualche tempo fa quella donna che rifiutò di farsi amputare una gamba e di conseguenza morì? in italia esiste il diritto a rifiutare le cure a patto che si sia in possesso della facoltà di intendere e di volere, e grazie a questo diritto una donna che avrebbe potuto tranquillamente vivere una vita normale (d'accordo, con una gamba in meno) per lunghi anni ha potuto lasciarsi morire.
    invece chi è relegato a letto in una condizione di estrema sofferenza e senza alcuna speranza di guarigione (per questo non tiene affatto il paragone con l'aiuto ad un depresso a morire: la sua situazione ha ragionevoli possibilità di migliorare, sempre che lui lo voglia) deve continuare a vivere per forza.
    un altro punto importante è la questione del dolore. chi dice che ci sia un senso nel dolore? se qualcuno lo trova, può pretendere che lo trovi anch'io?
    poi mi pare semplicistico e allo stesso tempo profondamente fuorviante ricondurre la questione dell'eutanasia all'abbandono dei sofferenti da parte dell'uomo moderno: chi mi aiutasse a morire nel caso io fossi ormai preda di una sofferenza senza via d'uscita non mi abbandonerebbe affatto, ma, conoscendomi, con le lacrime agli occhi e lo strazio nell'anima compirebbe per me un atto d'amore.
    filmografia: "le invasioni barbariche" di denys arcand, "nip/tuck" (la puntata in cui sean macnamara aiuta la sua amante malata di cancro a togliersi la vita)

    By Anonymous Anonymous, at 7:26 PM  

  • all'anonimo.
    qualche nota solo sui punti che toccano il mio post, non i commenti degli altri.

    1- mai negato che esista il diritto a rifiutare le cure mediche (anche se esiste l'eventualità del TSO a due condizioni) e non mi pare che sia il caso dell'eutanasia, che è il tema del post; l'eutanasia è tutt'altro. Rifiuto delle cure mediche ed eutanasia sono DUE COSE DIVERSE NON EQUIPARABILI.

    2- mai scritto che il dolore abbia senso. Mi cito: "Forse dolore e sofferenza non hanno senso né significato in loro stessi: ciò è da ricercare nelle nostre coscienze, nei nostri cuori, nei nostri ideali, nel nostro credo.
    Ma uno sforzo comune per riflettere sul dolore e sulla sofferenza va fatto, da questa riflessione qualche positività deve pur scaturire, un qualche guadagno deve pur avere." Ho scritto che la riflessione sul dolore e sulla sofferenza umani devono pur avere una qualche positività (il fatto che siamo qui a scriverne anzichè guardare l'isola dei famosi mi sembra positivo, denota sensibilità verso certe temi e certe persone purtroppo sofferenti). quanto al "forse dolore e sofferenza non hanno senso..." il forse è dovuto al rispetto che ho nei confronti dei cattolici, per i quali dolore e sofferenza hanno una dimensione salvifica. ma non è una lettura della sofferenza e del dolore che vado ad imporre alla gente armato di spada, così come non ne impongo nessuna altra.

    3- non ho ricondotto l'abbandono dei sofferenti alle caratteristiche dell'uomo moderno, non almeno nel senso che nel commento dell'anonimo è stato dato.
    ho semplicemente annotato come nella società contemporanea il dominio del paradigma funzionalista fa sì che alcune categorie umane si sentano subumane perchè prive di determinate caratteristiche funzionali. la volontà di farsi uccidere è dettata anche dal forte trauma psicologico che la situazione connota.
    e, tra parentesi, è la prima volta che sento parlare di omicidio come di un atto d'amore...

    filmografia: mare dentro. lui alla fine muore. ma tutto il film, è un inno alla vita.

    grazie per il tuo intervento (ma chi sei?!)
    AV

    By Blogger Versus, at 9:28 PM  

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